Autori:
Dott.ssa Valentina Paci (Algologa) – Medicina del Dolore e Spine Center
Dott. Alessandro Agostini (Fisioterapista) – Medicina del Dolore e Spine Center, Rimini
Dott.ssa Laura Ravaioli (Psicologa e psicoterapeuta) – Medicina del Dolore e Spine Center
Dott.ssa Chiara Corvini (Psicologa) – Conduttrice di Classi di Esercizi Bioenergetici I.I.F.A.B., Cesena
La fibromialgia è una sindrome persistente e debilitante con sintomi e segni che includono dolore, spasmi muscolari, allodinia, palpitazioni, affaticamento, disturbi del sonno, con devastanti effetti sulla vita quotidiana che possono sfociare in quadri di ansia e depressione.
La manifestazione clinica prevede dolore diffuso ad entrambi i lati del corpo, che dura da più di 3 mesi ed è associato a viva dolorabilità alla palpazione in corrispondenza di almeno 11 punti diversi del corpo definiti come Tender Points: la presenza di queste aree algogene (in prossimità di muscoli e tendini) definite dell’American College of Rheumatology nel ’90, in concomitanza con il sintomo di dolore diffuso, viene storicamente usato dallo specialista come segno diagnostico per la presenza di fibromialgia.
A tale condizione si associano affaticamento fisico e/o mentale, disturbi del sonno e dell’umore, sintomi gastrointestinali e/o cefalee. Altri sintomi, meno frequenti, possono essere rigidità mattutina e disturbi dell’equilibrio, presenza di acufeni, difficoltà di concentrazione, disturbi urinari o della sensibilità (parestesie e formicolii).
Le più recenti acquisizioni stanno però modificando alcuni aspetti ed anche i criteri diagnostici sono stati ormai messi in discussione. Obiezioni sia pratiche che concettuali suscitate dalla classificazione introdotta nel 1990 dall’American College of Reumathology infatti hanno spinto Wolfe e colleghi a proporne una nuova (Wolfe et al., 2010).
L’utilizzo di criteri classificativi, procedure diagnostiche e popolazioni diverse per variabili culturali, sociali ed etniche ha comportato una epidemiologia discordante con percentuali tra lo 0.2 e il 2% della popolazione tra i 18 ed i 65 anni, oppure tra lo 0.5% e il 5% della popolazione mondiale (White KP, Harth M., 2001, Wolfe at al., 1995).
Poiché spesso alcuni sintomi riportati dal paziente possono essere riscontrati come conseguenza di altre patologie e considerando che non esistono alterazioni individuabili tramite laboratorio, per lungo tempo tale diagnosi è stata sottostimata.
Inoltre, lo studio di Choy e colleghi (2010) osserva che i pazienti con FM ricevono la diagnosi dopo circa 2,3 anni dalla sua insorgenza e in seguito alla valutazione di circa 3,7 medici specialisti, che non sempre sono in grado di inquadrare correttamente il problema; quindi con un certo ritardo che consegue in costi economici, emotivi e di salute del paziente e grava anche sulla sanità pubblica.
L’andamento dei sintomi del paziente affetto da FM è influenzato da numerosi fattori esterni, come ad esempio climatici (le stagioni come primavera ed autunno e le condizioni di elevata umidità provocano spesso un’acutizzazione dei sintomi), stress e fattori ormonali. La variabilità della sintomatologia contribuisce a suscitare diffidenza rispetto a questa sindrome, ma a determinare le grandi difficoltà incontrate dai medici nel diagnosticarla è a nostro parere l’atteggiamento prevalente nel mondo medico scientifico che considera prioritario contrapporre patologie di origine mentale a patologie organiche, riprendendo l’antichissima distinzione platonica tra anima e corpo, poi ripresa da Cartesio che differenzia res cogitans e res extensa e che caratterizza anche l’attuale sistema nosografico-descrittivo del DSM.
Esso è certamente utile nel momento in cui ci si deve orientare per la diagnosi e si comunica tra colleghi, ma talvolta finisce per essere, anziché un orientamento, una griglia in cui è difficile inserire il paziente che soffre di malattie la cui genesi sembra dimostrarsi sempre più multifattoriale come, appunto, la sindrome fibromialgica.
Nell’approccio definito “bio-psico-sociale” applicato al dolore cronicizzato, è tenuto ben presente che “il dolore mentale sfuma nel dolore corporeo e viceversa (e che) ciò che è corporeo è altrettanto psichico (…) nel senso che il dolore del corpo mette in crisi la mente, allo stesso modo in cui un disagio della mente mette in crisi il corpo” (M. Zuercher, 2004 pg. 141).
Con questo approccio, ci accostiamo con interesse all’attuale ricerca sulle cause della FM. Mentre per alcuni, infatti, la fibromialgia sarebbe una sorta di infiammazione delle piccole fibre ed interesserebbe soltanto il sistema nervoso periferico, altri studi, supportati da RMN funzionale e immagini SPECT, testimonierebbero un’attività cerebrale dei pazienti fibromialgici profondamente diversa da quella di persone sane.
Nello specifico, nei soggetti fibromialgici è presente un’ elevata attività a livello della corteccia somatosensoriale e una ridotta attività nelle regioni frontale, cingolo, temporale mediale e cerebellare. Studi sul metabolismo mostrano pattern anormali a livello dell’ippocampo, il che potrebbe spiegare alcuni sintomi come le alterazioni del sonno. Il quadro che emerge è quello di una ipereccitabilità delle vie e delle strutture implicate nella conduzione e percezione del dolore ed una ridotta attività dei sistemi inibitori.
Queste osservazioni stanno portando la ricerca eziologica ad orientarsi soprattutto sui processi definiti come central sensitization (CS), condizione in cui il sistema nervoso centrale risulta come bloccato in una condizione di aumentata reattività agli stimoli ed in cui proprio questa sensibilizzazione a livello centrale determinerebbe due fenomeni tipici della fibromialgia: l’iperalgesia (percezione di dolore molto forte in risposta a stimoli dolorosi di lieve entità) e l’allodinia (percezione di dolore in risposta a stimoli che in condizioni normali non vengono percepiti come dolorosi).
Della biunivocità tra mente e dolore spesso si sottolineano solo gli aspetti negativi: ovvero il disturbo mentale che può conseguire a un danno organico o determinare l’insorgenza o il mantenimento di una malattia. Invece, crediamo sia di grande importanza considerarne l’aspetto positivo, soprattutto di fronte a malattie croniche in cui la modalità di reazione (talvolta di accettazione) del paziente influisce grandemente nella loro gestione e favorisce una buona alleanza diagnostica e terapeutica con l’equipe medica, con grande vantaggio per entrambe le parti: se il dolore si trasmette “come un fluido” tra corporeo e psichico, tra mentale e fisico, vi è anche l’opportunità di utilizzare quel canale per i processi di cura, nel concetto di benessere psico-fisico. Quest’ultimo implica un percorso che comprende anche l’autoconsapevolezza del proprio corpo – con le sue posture, fragilità o limiti – e che con il nostro progetto, ci proponiamo di attivare nel paziente.
Il nostro percorso di intervento multidimensionale riunisce il lavoro di diversi specialisti nella clinica della Fibromialgia (algologi, fisioterapisti, psicologi) e comprende la valutazione algologica, la valutazione multidimensionale del dolore e proposte di terapia farmacologica ed interventi fisioterapici, psicofisici individuali o di gruppo con una particolare attenzione all’aspetto di “educazione” e condivisione sulla sindrome fibromialgica con i pazienti e le loro famiglie. Ogni percorso è ritagliato sul singolo paziente e per favorire questa modalità di lavoro è predisposto un momento di confronto tra i diversi clinici per condividere ipotesi diagnostiche e proposte terapeutiche dei nuovi pazienti, e per seguire l’andamento dei pazienti che hanno già intrapreso un percorso, con una riunione ogni 15 giorni circa.
Valutazione algologica e terapia farmacologica
La fibromialgia è una sindrome complessa caratterizzata da dolore spontaneo diffuso, ad interessamento principale di muscoli, articolazioni, legamenti, e provocato.
Pur considerandola da un punto di vista temporale come una patologia cronica, il dolore non è costante e neppure della stessa intensità, oltre a non interessare sempre le stesse zone del corpo. Il dolore si associa come ben noto ad altri sintomi e disturbi quali affaticamento, disturbi del sonno, problemi cognitivi e di memoria, cefalea, ansia, depressione.
Malattie reumatologiche come osteoartrite, LES, artrite reumatoide, spondilite anchilosante, possono in qualche modo predisporre allo sviluppo di forme secondarie di fibromialgia.
Anche lo stile di vita e la personalità sembrano influire: nello specifico ambizione, stress, lavori individuali e competitivi. Molte persone affette da fibromialgia riportano inoltre in anamnesi un evento traumatico come “miccia innescante”.
Per quanto riguarda l’eziologia, accanto alle ipotesi che vedono coinvolti alcuni agenti infettivi (HCV, HIV, HBV, virus di Ebstein-Barr) stanno sempre più affacciandosi anche ipotesi genetiche ed in particolare sarebbero stati identificati tre geni potenzialmente associati al rischio di sviluppo della fibromialgia; mutazioni a carico di questi geni sono associate ad un aumentato livello di citochine infiammatorie. (Feng J. et al., 2013).
L’aumentata sensibilità al dolore presente nel paziente fibromialgico è riconosciuta avere un’origine centrale e risulterebbe dallo squilibrio tra input nocicettivi che salgono al cervello e attività delle vie discendenti inibitorie.
Individui con fibromialgia hanno in comune con pazienti affetti da disturbo d’ansia una disfunzione del sistema monoaminergico centrale, con diminuita concentrazione nel liquor di serotonina, noradrenalina e dopamina. Il ridotto funzionamento dei sistemi serotoninergico e noradrenergico che ne deriva si traduce in una aumentata sensibilità centrale agli stimoli nocicettivi. A ciò contribuisce l’alterato funzionamento di altri sistemi di neurotrasmettitori, neurokinine, oppioidi, glutammato.
Simili modifiche del funzionamento sono state trovate a carico dell’asse ipotalamo-ipofisi-adrenergico fondamentale per la risposta allo stress. L’ipocortisolemia si traduce in un ridotto effetto di feedback inibitorio sui sistemi noradrenergico e immunitario, con conseguente aumento della produzione di citochine infiammatorie.
Compito primario dell’algologo è la diagnosi di fibromialgia o la sua conferma, qualora il paziente giunga a noi con una valutazione fatta precedentemente da un altro medico.
Risulta ormai chiaro come l’analisi dei tender points, per anni definita il criterio diagnostico della fibromialgia, sia decisamente riduttiva in una sindrome tanto complessa, ricca di sintomi e sfumature (Wolfe F. 2009; Wolfe F. et al., 2010).
Grande valore va dato alle caratteristiche temporali, spaziali e qualitative del dolore, alla presenza dei sintomi “accessori” (ma che in realtà abbiamo visto essere parte integrante della malattia) e vanno ovviamente escluse altre condizioni in grado di giustificare la sintomatologia.
Pur non esistendo cure definitive per la fibromialgia è sicuramente condivisa (e supportata dagli studi), l’opinione che un approccio multidisciplinare e di presa in carico del paziente possa condurre al miglior risultato terapeutico ottenibile (Binkiewicz-Glińska A, 2015).
In un percorso del genere, il medico specialista del dolore giocherà un ruolo principale nelle prime fasi di diagnosi, nella valutazione clinica, nella impostazione terapeutica, nonché nella motivazione del paziente ad intraprendere un “cammino” terapeutico così articolato e impegnativo. Si manterrà poi solo apparentemente in secondo piano svolgendo una sorta di ruolo da regista durante il percorso terapeutico guidato da fisioterapista e psicologo, con i quali sarà sempre in contatto e dovrà essere pronto ad intervenire sul paziente qualora ce ne sia la necessità, verificando poi il follow-up con appuntamenti cadenzati nel tempo.
Se da un lato è vero che i trattamenti non farmacologici giocano un ruolo fondamentale nella gestione della fibromialgia, è altrettanto vero che un sostegno farmacologico, soprattutto nella fase iniziale di trattamento e durante le recrudescenze algiche, è assolutamente indicato.
I farmaci comunemente usati e di provata efficacia clinica sono quelli appartenenti a due classi di antidepressivi (triciclici e inibitori del reuptake di serotonina e noradrenalina) e i ligandi della subunità alfa 2-delta di canali del calcio voltaggio dipendenti (cosiddetti gabapentinoidi).
Gli antidepressivi duali agiscono rinforzando le vie endogene di controllo del dolore con una efficacia stimata nel 30-50% dei pazienti. Sicuramente meglio tollerati dei TCA, la dose raccomandata è comunque quella più bassa alla quale è possibile ottenere l’effetto terapeutico (70-80 mg). Nello specifico, vengono impiegati con pochi effetti collaterali duloxetina, milnacipram, venlafaxina. Questi farmaci non solo riducono il dolore ma agiscono anche nei confronti degli altri sintomi.
Tra i triciclici l’unica molecola indicata è l’amitriptilina. Per quanto riguarda gli inibitori selettivi del reuptake della serotonina, solo fluoxetina e paroxetina risultano parzialmente efficaci (per l’azione che hanno sul sistema noradrenergico) e sono raccomandati quando a prevalere sono i disturbi depressivi e l’ansia. Pregabalin e Gabapentin vengono utilizzati e sono relativamente ben tollerati; per ovviare l’eventuale sonnolenza che inducono, se ne consiglia l’assunzione serale. Al di là di quelle che sono la pratica clinica e l’esperienza condivisa, in America la FDA (Food and Drug Administration) ha approvato l’utilizzo di pregabalin (2007), duloxetina (2008) e milnacipram (2009). In Europa l’EMEA (European Medicines Agency) soltanto il milnacipram.
Gli oppiacei non sono raccomandati per il trattamento della fibromialgia, potenzialmente sembrano addirittura in grado di aumentare la sensibilità al dolore e indurne la persistenza. Nel caso se ne ritenesse necessario l’utilizzo, la scelta migliore sembra essere il tramadolo, perché dotato di azioni di tipo noradrenergico e serotoninergico.
A volte con la somministrazione di FANS o acetaminofene è possibile assistere ad un miglioramento del dolore localizzato e ciò sembra essere particolarmente efficace in quei pazienti nel quali la fibromialgia è associata a disturbi come l’artrite, mentre non è raccomandato l’uso di ipnotici e benzodiazepine (Calandre EP, et al., 2015; Okifuji A, Hare BD., 2013).
Valutazione multidimensionale del dolore e spazio educativo
La valutazione multidimensionale del dolore nel percorso con pazienti fibromialgici si effettua valutando dal punto di vista quantitativo e qualitativo come la fibromialgia affligge la vita privata, relazionale, familiare e lavorativa.
Insieme al paziente saranno evidenziati punti di fragilità e di forza e valutate le aspettative e le proposte per il percorso con l’equipe di medicina del dolore.
Una piccola batteria di test può risultare utile per monitorare nel tempo l’andamento della malattia, e comprende un test multidimensionale del dolore: QUID (De Benedittis et al.,1988), il First – Fibromyalgia Rapid Screening Tool – (Perrot et al, 2010) e la Numeric Rating Scale (NRS), somministrati ai pazienti in un breve colloquio con la psicologa dell’equipe, cui potranno essere aggiunti eventuali altri test per monitorare la sintomatologia ansiosa e/o depressiva.
E’ stato inoltre pensato uno spazio di educazione alla sindrome fibromialgica: un incontro di gruppo con i pazienti per illustrare la sindrome e le diverse possibilità di intervento, con la possibilità anche per i familiari di partecipare.
Esercizio fisioterapico
L’esercizio terapeutico è dimostrato essere efficace nel trattamento della fibromialgia sia in termini di miglioramento della qualità della vita, che nella riduzione del dolore e del senso di fatica e anche nel miglioramento della depressione, mentre non sembrerebbe avere un effetto per quel che riguarda i disturbi del sonno (Brosseau et al., 2008a; 2008b). Al momento sono considerati efficaci sia esercizi aerobici che esercizi di rinforzo e di flessibilità, da effettuarsi da soli o in combinazione, anche se le evidenze a sostegno degli esercizi di flessibilità sono di entità modesta ( Busch et al.2009).
L’esercizio per essere efficace deve essere ritagliato su misura dello stato di salute del paziente e deve tenere in considerazione la sintomatologia del paziente, per evitare che ci si trovi di fronte ad un aumento improvviso dei sintomi, essendo dimostrato che i soggetti affetti da fibromialgia presentano una disfunzione nel meccanismo di analgesia endogena prodotta normalmente dagli esercizi (Nijs et al., 2012). Questo può provocare una risposta dolorosa del paziente al regime di esercizi proposto, con conseguente rischio di perdita di adesione al programma terapeutico.
Normalmente, l’esercizio è considerato avere un ruolo analgesico. Infatti, nei soggetti sani un esercizio aerobico di intensità sufficiente (200 W o 70%VO2MAX circa), produce una inibizione del dolore post-esercizio per un periodo superiore ai 30 minuti; anche esercizi di resistenza producono analgesia, ma per un periodo non superiore ad un paio di minuti post-esercizio (Koltyn, 2002).
Tuttavia, i pazienti affetti da fibromialgia sembrerebbero incapaci di attivare il meccanismo di analgesia post-esercizio. Studi su animali dimostrano come l’ischemia a livello muscolare possa essere un potente meccanismo di sensibilizzazione dei meccanocettori periferici, così che anche l’aumento di pressione intramuscolare causato da una semplice contrazione può diventare uno stimolo nocicettivo (Mense, 2003). Nel confronto con persone sane, i pazienti affetti da fibromialgia hanno una diminuzione del flusso sanguigno durante contrazioni muscolari statiche (Elvín et al., 2006), la qual cosa può portare alla sensibilizzazione periferica e spiegare l’aumento della sensibilità al dolore riportata da questi pazienti nei muscoli dolorosi (Lannersten et al., 2010).
In ogni caso, gli studi che mostrano una disfunzione nel meccanismo di analgesia endogena non contraddicono le evidenze circa l’efficacia dell’utilizzo degli esercizi nel trattamento della fibromialgia: inducono tuttavia il fisioterapista a tenerne conto nella creazione del programma terapeutico più idoneo per il paziente.
A dispetto del fatto che l’esercizio terapeutico sia efficace, l’adesione ai programmi terapeutici basati su esercizi risulta piuttosto bassa, soprattutto nella prima fase dei programmi riabilitativi. La mancanza di analgesia post-esercizio implica una diminuzione della soglia dolorifica del paziente a seguito degli esercizi. Questo rende il paziente più vulnerabile agli stimoli nocicettivi, con il rischio di esacerbazione dei sintomi (Nijs et al., 2012).
Per evitare questo è opportuno seguire alcune indicazioni:
- preferire esercizi aerobici o esercizi di rinforzo con contrazione NON-eccentrica (eccentrica è una contrazione in allungamento del muscolo, che si differenzia dalla contrazione concentrica che è invece una contrazione in accorciamento),
- includere esercizi per parti del corpo che non sono dolorose,
- nella scelta degli esercizi, prediligere le preferenze del paziente,
- scegliere esercizi a bassa intensità e non ripetitivi,
- partire da una base che sia compatibile con le capacità del paziente,
- leggeri aumenti dei sintomi possono essere tollerati all’inizio, ma poi devono scomparire quando il programma di esercizi diventa di routine,
- graduare l’intensità dell’esercizio in funzione delle risposte del paziente.
Se il livello di partenza del paziente è limitato, si può iniziare con attività di base, come il solo camminare, cercando sempre di graduare le abilità del paziente alla richiesta funzionale.
Da tenere in considerazione che programmi che prevedono esercizi supervisionati in gruppo possono essere meglio dei programmi domiciliari, sia per la possibilità da parte del paziente di avere maggiori feedbacks sul programma terapeutico stesso, sia per il confronto con gli altri appartenenti al gruppo.
Appena possibile, ovvero quando le capacità funzionali di base raggiungono un livello sufficiente, il paziente può lasciare i programmi di lavoro specifici ed aderire a programmi di attività fisica ricreativi tradizionali.
Psicoterapia, Classe di Esercizi Bioenergetici – Mindfulness individuale e in gruppo
La collaborazione dello psicologo alla fase terapeutica prevede percorsi differenziati per ogni paziente. In presenza di forte sofferenza psicologica o problemi specifici inerenti la sfera relazionale, dato il forte impatto della malattia sulla vita quotidiana, possono essere indicati colloqui di consulenza psicologica individuale o di coppia per valutare l’opportunità di una psicoterapia, ma nella maggioranza dei casi il paziente fibromialgico può ottenere beneficio da un intervento psico-corporeo individuale o di gruppo.
Un approccio integrato alla FM prevede sia la presenza e la sinergia di diverse figure professionali, sia l’acquisizione di un punto di vista che riconosca la relazione tra mente, corpo e comportamento e la sua influenza sulla salute e la malattia. Vi e’ un crescente interesse da parte della comunità scientifica e della società in generale verso metodi di intervento definiti mind – body oriented (Ryan M, Johnson MS., 2002). Tra questi, ampio spazio di ricerca e di applicazione nell’ambito del dolore cronico e’ dato alla meditazione Mindfulness, di cui esistono diversi protocolli, di cui il piu’ noto e’ l’MBSR di Jon Kabat Zin, che allena a coltivare quello stato mentale di consapevolezza che emerge orientando la propria attenzione, in modo intenzionale, a cio’ che accade momento per momento con curiosità e assenza di giudizio (kabat Zin J., 1982).
L’interesse e’ rivolto anche a discipline basate sul movimento corporeo che hanno l’obiettivo di favorire una maggior coscienza di sé, attraverso un progressivo “radicamento” nel corpo. In quest’ottica la Classe di Esercizi Bioenergetici (Lowen A, Lowen L., 1979) può rappresentare uno strumento di lavoro per affrontare il dolore rispettandone il suo duplice aspetto: fisico e psicologico. Si tratta di un percorso di gruppo ideato da A. Lowen, padre dell’Analisi Bioenergetica, un approccio di psicoterapia ad orientamento corporeo in cui vi è una costante attenzione alla relazione tra la struttura muscolare e la struttura caratteriale dei pazienti, per cui si ritiene che un cambiamento nell’atteggiamento corporeo, quando una tensione cronica si allenta, generi benefici a livello dell’intera personalità e viceversa.
La classe di esercizi bioenergetici, attraverso il movimento e la presa di coscienza delle rigidità e limitazioni nel corpo, ha l’obiettivo di influenzare positivamente la condizione psico-fisica del paziente con dolore cronico, lavorando simultaneamente su più livelli: muscolare, sensoriale, emozionale, ideativo e relazionale.
La tensione nella fibromialgia può essere ricondotta, se si assume il punto di vista dell’Analisi Bioenergetica, alla “corazza muscolare” decritta da W. Reich (Reich W, 1933) in cui la persona e’ costretta, impossibilitata ad effettuare movimenti sciolti e limitata nella sensibilità a causa di blocchi cronici che funzionano come un apparato difensivo da sentimenti angoscianti al pari delle difese dell’io. L’ipertono, infatti, e’ uno stato simpatico-tonico della muscolatura in funzione dell’allarme e della paura dell’aggressione, sia che provenga dall’esterno che dall’interno. In una classe di esercizi bioenergetici il conduttore propone sequenze di movimento con l’obiettivo di favorire la presa di coscienza e l’ascolto delle sensazioni corporee. Molta enfasi viene data alle risonanze psicologiche, poiché muoversi con consapevolezza permette di cogliere anche aspetti emotivi e ideativi di sé e di creare le connessioni tra i due livelli: fisico e mentale. Chi soffre di dolore cronico non e’ abituato ad ascoltare il corpo in maniera sottile, cogliendo anche le piccole sfumature e non solo le intense sensazioni dolorose. Essere più attenti a come ci si sente apre la possibilità di mettere in atto accorgimenti e piccoli cambiamenti orientati a stare meglio e ad abbandonare abitudini poco rispettose che peggiorano o favoriscono le crisi algiche. Le sequenze di movimento allenano, gradualmente, all’autodistensione, grazie allo sperimentare dei diversi livelli di contrazione muscolare che facilita l’autoregolazione e diventa lo strumento per spezzare il circolo vizioso della tensione che aumenta il dolore.
Va sottolineato che la classe di esercizi bioenergetici non è una psicoterapia di gruppo e non la sostituisce; differisce anche dalla ginnastica posturale o dalla chinesiterapia, in quanto l’enfasi non e’ posta su obiettivi tecnici come la mobilità articolare o l’estensibilità muscolare, ma sul processo di consapevolezza corporea. La dimensione relazionale ha un valore notevole: partecipanti e conduttore si influenzano reciprocamente in una “relazione interattiva circolare” (Scoppa F, Borrello MR., 1998). Il gruppo funziona anche da contenitore, rappresenta uno spazio protetto, permette di sentirsi compresi, non soli e non giudicati.
Riassumendo: la classe di esercizi bioenergetici e la meditazione mindfulness, con modalità diverse, ma pur sempre centrate sulla capacità di diventare osservatori attenti dell’esperienza, interna ed esterna, a partire dalle percezioni che provengono dai sensi, si fondano sul concetto di unità e interrelazionalità di corpo e mente. Una recente review sulla fibromialgia e le terapie Alternative e Complementari (CAM) (Romy L et al, 2015) ha messo in luce un significativo miglioramento rispetto al controllo sulla qualità della vita e sulla riduzione dello stress. Questi approcci richiedono un ruolo attivo da parte del paziente e questo si correla ad un maggior coinvolgimento e ad un aumento del senso di autoefficacia che restituisce al paziente responsabilità e potere nell’influenzare la propria condizione medica.