Dott. Giampiero Gallo Algologo

Articolo 2 rivista n°4 di Medicina del Dolore
Spazio Ricerche Giugno 2013 

Unita’ Operativa di Medicina del Dolore
Direttore Dott. Gilberto Pari
Ospedale Privato Villa Serena, Forlì
Ospedale Privato S.M.Maddalena, Occhiobello (RO)

Sono passati oramai quasi due anni da quando, frugando nel web alla ricerca di qualcosa che potesse essermi di supporto nell’attività clinica di medicina del dolore mi sono imbattuto nel termine Mindfulness.
Per la prima volta nella mia vita stavo prendendo in seria considerazione l’analisi del senso vero del termine “consapevolezza”, che molte volte avevo pronunciato e che davvero credevo di aver provato in più di un’occasione. La seconda considerazione è venuta di conseguenza: può una pratica meditativa o per meglio dire una pratica di consapevolezza essere un medicamento?
Ma facciamo un passo indietro, una cosa per volta….
Sono un medico che si occupa di pazienti con dolore persistente/cronico: certo, sono all’inizio della mia professione di Algologo interventista e questo, per certi versi, mi fornisce il privilegio di un punto di osservazione diverso, dal quale mi sono accorto sin da subito di quanto fosse importante avere uno strumento che permettesse di elaborare lo stress condiviso nella gestione di pazienti che soffrono così tanto da lasciare inevitabilmente in chi li cura un senso di irrisolto e di frustrazione, anche nei casi in cui le cure effettivamente danno un buon esito.
Il nostro cervello ha una naturale tendenza a seguire la strada che offre minor resistenza, così succede che imbocchi la strada più corta, magari in discesa e che comporti poca fatica, poco tempo, che sia pratica e piacevole, …….

bingo!!!!!

Tutti i metodi che avevo sin allora considerato erano più o meno belli (attività fisica, tour di Parigi con la tua donna/uomo del cuore, giro dei Quattro Passi con la tua moto, beauty farm, super massaggi super rilassanti), efficaci (terapia psicoanalitica, yoga, pilates, terapia cognitivo comportamentale), glamour (decottoterapia, golf), ma non avevano l’unica vera cosa che stavo cercando: non restituivano cioè la consapevolezza dei nostri stati d’animo, non permettevano di elaborare ed analizzare i nostri pensieri in modo raffinato ma tutt’al più univano al piacere di compiere un’attività ludico ricreativa “ il rimpicciolimento “ dei pensieri per qualche ora.
Consapevolezza è una parola gravida di emozioni: la prima parola alla quale l’ho associata in modo istintivo è stata Potere. Quello che non sapevo è che esiste una Pratica di consapevolezza, un modo con il quale si può esercitare in senso quasi fisico la consapevolezza e far sì che questa restituisca al nostro cervello il ristoro e la lucidità di cui si ha bisogno per condividere il percorso di cura del paziente con dolore.

Veniamo ora alla parte doverosamente scientifica di questo articolo.

La definizione della Task Force on Taxonomy della IASP (International Association for the Study of the Pain) è stata più volte rivista negli ultimi 20 anni e più precisamente nel 1984, nel 1994 e più recentemente nel 2011. Il risultato è che il dolore viene definito come una “spiacevole esperienza sensoriale ed emozionale associata ad un danno tessutale reale o potenziale e descritta in termini di tale danno”.
Prendendo in considerazione l’analisi compiuta da A. Damasio si può ritenere che l’emozione dolore sia un fenomeno biologico innato, funzionale alla sopravvivenza della specie e basata su una risposta motoria involontaria, neuroendocrina ed autonomica ad un stimolo sensoriale (mediato dai sistemi subcorticali e limbici); dipende quindi dalle esperienze pregresse, dalla rappresentazione di sé e degli altri e dalla cultura di appartenenza: è lo stato di sofferenza (intelligibile) del dolore.
Nell’analisi del termine si arriva ad un passaggio cruciale, quello che intercorre tra l’emozione-dolore nella sua sensazione sensoriale-affettiva e la dimensione affettivo-valutativa del sentimento dolore, che viene a configurarsi come stato della sofferenza, delocalizzata (nello spazio e nel tempo) e arricchita degli aspetti di giudizio e di memoria sia personali che sociali.
Negli ultimi anni è emersa in letteratura l’evidenza di come il dolore modifichi strutture cerebrali ed induca una risposta maladattativa allo stress con importanti alterazioni di tipo neuro-immuno-endocrino.
Nel febbraio 2013 Rodriguez et al. hanno pubblicato un articolo intitolato “Structural Brain Changes in Chronic Pain Reflect Probably Neither Damage Nor Atrophy ” nel quale grazie a tecniche di fRMI hanno studiato le modificazioni indotte da parte di uno stimolo nocicettivo persistente a livello della sostanza grigia corticale e dei maggiori centri cerebrali di integrazione del dolore, evidenziando come queste siano espressione del danno secondario da dolore e non causa di per sé della sintomatologia algica.
In letteratura le evidenze di tale riorganizzazione strutturale e funzionale nei pazienti con dolore cronico supportano l’idea che il dolore cronico non debba essere concettualizzato come un’alterazione funzionale, ma come una conseguenza diretta della neuroplasticità.
Ancor di più, sembra che le alterazioni “ doloreindotte “ non solo provochino cambiamenti a livello della sostanza grigia, ma che siano anche responsabili o corresponsabili della persistenza del dolore.
Secondo Vachon-Presseau et al il dolore cronico sarebbe associato ad una diminuzione della sostanza grigia e/o ad una variazione dello spessore della cortex e alla riorganizzazione funzionale dei pain related networks, incluso l’ippocampo (Baliki et al., 2010, 2012; Schweinhardt and Bushnell, 2010; Maleki et al., 2012).
I pazienti con dolore cronico inoltre mostrano spesso alterazioni dell’asse ipotalamo ipofisario e cortico surrenalico. Gli autori prendono in considerazione quindi la relazione tra lo stress maladattativo, il dolore cronico e la funzione ippocampale come modello esplicativo della persistenza degli stati di dolore cronico e delle differenze interindividuali nella percezione del dolore dal punto di vista clinico.
Lo studio ha dimostrato che i pazienti affetti da chronic back pain hanno elevati livelli basali di cortisolo e che gli alti livelli diurni di cortisolo sono associati ad un ridotto volume ippocampale e ad una risposta esagerata allo stimolo algico.

Nell’ambito della Medicina del dolore appare di rilevante importanza l’apertura verso pratiche come la Mindfulness che possano essere di supporto ai pazienti affetti da malattia dolore al fine di ridurre le alterazioni neuroimmuno-endocrine stress related e garantire il perseguimento dei programmi terapeutico riabilitativi in un’ottica di maggiore autonomia funzionale degli stessi pazienti. Non di secondaria importanza è evidente il possibile ruolo della Mindfulness quale strumento di riduzione dello stress nelle persone (care giver) che si occupino di tali pazienti.

La Mindfulness può essere descritta come la consapevolezza che emerge attraverso il prestare attenzione allo svolgersi dell’esperienza momento per momento, con intenzione, nel presente ed in modo non giudicante. Il potere terapeutico e liberatorio di questo stato di presenza mentale è sempre più al centro dell’interesse scientifico e della ricerca in psicoterapia, medicina comportamentale e in ambito educativo. Il protocollo Mindfulness, in particolare, nasce alla fine degli anni ’70 da un’intuizione del prof. John Kabat-Zinn, biologo molecolare e docente di medicina presso la Medical School dell’Università del Massachusetts, che per diversi anni si era dedicato alla ricerca di un metodo per poter ridurre gli effetti dello stress, o disagio interiore, in ambito clinico.
Tale metodo è divenuto un programma scientifico, denominato Mindfulness Based Stress Reduction (MBSR), sviluppato fin dal 1979, che è stato completato ad oggi da oltre 20.000 persone e viene proposto ai pazienti di oltre 400 aziende ospedaliere sia negli Stati Uniti che in Europa nel contesto della medicina integrativa.
La prospettiva della Mindfulness indica la possibilità di una conoscenza che si manifesta quando l’attività discorsiva ininterrotta della mente si placa creando lo spazio perché emerga, spontaneamente, una consapevolezza silente, una presenza al di là delle parole, dei concetti, del pensare, dell’intendere, del significare.
Le applicazioni cliniche sono ampie e vanno dalla psoriasi, alla fibromialgia, alle sindromi da dolore cronico e alle patologie mentali come i disturbi d’ansia generalizzati, i disturbi da attacco di panico, i disturbi alimentari.
Queste considerazioni trovano ampia conferma scientifica dalla nascita nell’ultimo decennio di un’area di ricerca sulle emozioni detta “affective neuroscience” che unisce le neuroscienze di base con la ricerca della psicologia tradizionale soprattutto di matrice cognitivista.
Richard J Davidson è uno dei più rinomati neuroscienziati statunitensi: dirige il Laboratory for affective Neuroscience presso la University of Winsconsin e sin dagli anni ’70 si è interessato alla Mindfulness.
Davidson propone un modello generale dell’emotional processing neurobiologico e psicologico che riconosce l’esistenza di due sistemi neuropsicologici di base. Uno sottende l’avvicinarsi delle emozioni ad uno scopo gratificante generando effetti positivi. Il secondo sottende la polarità opposta generando rabbia e paura. Questi due sistemi corrispondono ad un network di aree corticali, limbiche e del tronco encefalico che riconoscono nella corteccia prefrontale e nell’amigdala due componenti fondamentali.
Utilizzando le tecniche di brain imaging con fMRI (risonanza magnetica funzionale) ha dimostrato che, durante un tipo di meditazione che favorisce la “consapevolezza della compassione incondizionata “ in tutti i meditatori (esperti), era attiva una specifica e limitata area del cervello in modo non osservabile nel gruppo di controllo. Inoltre l’Elettroencefalogramma (EEG) ha registrato onde gamma (di elevata frequenza associata a processi cognitivi coscienti) di elevata ampiezza (4 volte superiore ai soggetti di controllo). Tale risultato suggerisce la possibilità di cambiamenti permanenti a livello neurale.
Sempre Davidson, in collaborazione con J. Kabat Zinn, ha pubblicato uno studio relativo ad un campione di 36 persone tutte impiegate nella medesima azienda, delle quali 25 hanno completato il programma MBSR durato 8 settimane. Alla fine del periodo di studio il gruppo di meditatori ha mostrato un significativo aumento di attivazione di base delle aree prefrontali sinistre (emozioni positive), rispetto al gruppo di controllo. Tale differenza è rimasta statisticamente significativa a quattro mesi di distanza dalla fine del programma ed anche la funzionalità del sistema immunitario del gruppo di praticanti è migliorata rispetto al controllo (maggior titolo anticorpale in risposta all’inoculazione di vaccino antinfluenzale).

La Mindfulness è quindi intimamente connessa ad un altro tema di grande attualità scientifica: la neuroplasticità. I circuiti funzionali e le rappresentazioni corticali dell’esperienza sono dinamici, a discapito di quanto ritenuto sino a metà degli anni ’90, e vengono costantemente modificati dall’esperienza stessa. Non solo c’è una continua riorganizzazione a livello sinaptico, ma è stato dimostrato lo sviluppo di nuovi neuroni anche negli adulti. Si parla di use-dependent cortical reorganization.
Secondo Rosenkranz et al, l’MBSR training esiterebbe in una ridotta risposta infiammatoria con una riduzione dell’infiammazione neurogena ed un miglioramento dei sintomi nei pazienti.
Dal punto di vista clinico, l’applicazione dei protocolli MBSR nei pazienti con dolore cronico è da anni oggetto di studio: Rosenzweig et al. in un recente studio hanno concluso che l’effetto dell’MBSR sul dolore, la qualità di vita ed il benessere psicologico sono variabili in base al tipo di dolore cronico ed alla compliance del paziente rispetto alla pratica quotidiana. In questo senso, altri studi condotti su pazienti con dolore cronico hanno mostrato un beneficio dopo l’inizio di una pratica di Mindfulness riportando la riduzione del dolore, il miglioramento dell’attenzione e, in generale, della qualità di vita. Un altro studio di Morone et al. dimostra la possibile efficacia del protocollo MBSR nei pazienti con chronic low back pain.

Allora, medication or meditation!?

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