Dott. Gianfranco Sindaco
Algologo – Unita’ Operativa di Medicina del Dolore, Ospedale Privato S.M.Maddalena, Occhiobello (RO)
Spine Center e Medicina del Dolore, Ferrara
Parole chiave: nocicezione, dolore cronico, emozioni, evoluzione
Classicamente, il dolore è stato sempre studiato dal punto di vista della modificazione dell’informazione nocicettiva. Questo campo di studio ha generato una vasta conoscenza per quanto riguarda la trasduzione, la trasmissione e l’elaborazione nel midollo spinale dei segnali nocicettivi legati al dolore acuto e cronico.
Allo stesso modo, studi su animali hanno svelato le proprietà degli afferenti primari, i loro circuiti nel midollo spinale e i percorsi specializzati connessi al cervello che mediano i comportamenti da dolore.
Sono stati anche estensivamente caratterizzati, in modelli di lesioni nervose di roditori, la riorganizzazione dell’afferenza nocicettiva, delle afferenze sensitive e, in particolare, i circuiti del midollo spinale.
In parallelo, studi di brain imaging umani hanno portato all’identificazione dei circuiti cerebrali nocicettivi. Recenti studi di imaging del cervello umano hanno esaminato una grande varietà di condizioni di dolore ed hanno evidenziato che il cervello svolge un ruolo attivo nella percezione sia del dolore acuto, che nelle condizioni cliniche; questo ha portato ad un acceso dibattito per quanto riguarda la rispettiva importanza delle afferenze periferiche rispetto all’interpretazione dei segnali afferenti da parte del cervello.

Fig 1. Immagine tratta da: “Nociception, Pain, Negative Moods, and Behavior Selection”, pubblicato su Neuron nel 2015 , di Vania Apkarian e Marwan N. Baliki . Il modello Cartesiano del dolore.
Il paradigma che si è imposto in questi anni, con tutti gli ovvi aggiornamenti su descritti, è ancora quello del modello Cartesiano (Fig. 1), che associa uno stimolo nocivo ad una specifica attivazione cerebrale. Ma sorge un problema: se definiamo la Nocicezione come il processo neurale di codifica di uno stimolo ”Nocivo”, la definizione di nocicezione diventa ricorsiva, vi è cioè una tautologia. Ma chi decide che lo stimolo è nocivo? Evidenze degli ultimi anni hanno portato a rivedere questo modo di intendere il dolore, creando un vero cambio di paradigma. Gli articoli “Nociception, Pain, Negative Moods, and Behavior Selection”, pubblicato su Neuron nel 2015, e “Chronic pain: The role of learning and brain plasticity”, pubblicato su Restorative Neurology and Neuroscience nel 2014, entrambi di Vania Apkarian e del suo gruppo di ricerca, che si occupa da più di venti anni dei meccanismi cerebrali del dolore, riassumono egregiamente questo cambio di visione: qui ne vengono esposti i punti principali in modo tale che, chiunque si occupi di dolore, possa venirne a conoscenza e si possa così suscitare un dibattito.
Nocicezione
La definizione standard di dolore enfatizza la sua soggettività. La soggettività, a sua volta implica un’esperienza cosciente. Sherrington coniò il termine nocicezione ai primi del 900 (Sherrington, 1900). Egli vide una stretta correlazione tra i riflessi nocicettivi e la percezione del dolore: “L’attività nocicettiva, potrebbe, presumiamo, evocare il dolore.” (Sherrington and Woodworth 1904).
Che l’attività nocicettiva possa evocare l’esperienza del dolore, è ormai un dato di fatto ampiamente confermato da diversi approcci sperimentali (Basbaum et al., 2009; Woolf and Salter, 2000; Meyer et al., 2006 Texbook of pain).
Ma è anche esperienza diretta che i nocicettori si possano attivare senza l’esperienza del dolore: siamo tutti d’accordo che, applicando 50 kg su 1 cm2 di pelle si evocherebbe dolore severo; tuttavia, una ballerina classica con scarpe a punta lo fa continuamente per diverse ore, riportando esperienze emozionali positive, mentre i suoi nocicettori delle punte sono attivi; si potrebbe quindi dire che, almeno i ballerini esperti, riescono a dissociare l’esperienza del dolore dalla nocicezione (Fig. 2).
Molti scienziati che si occupano di dolore, si sono dimenticati che noi passiamo la maggior parte della nostra vita senza dolore e senza lesioni tissutali. E questo avviene proprio per l’attivazione dei nocicettori, non essendoci nessun altro sistema neuronale preposto a proteggere il nostro corpo.
Per quale motivo ci si muove continuamente su una sedia? Perchè i nocicettori di pelle, muscoli e ossa comandano ai muscoli posturali di fare continui aggiustamenti. Se i propiocettori danno un’informazione conscia (anche se “abituata”) della posizione del corpo nello spazio, sono i nocicettori che proteggono dal danno. Non esistono altri sistemi deputati a quest’attività.
Un’attività nocicettiva in assenza di dolore sembra essere necessaria a mantenere l’integrità corporea.
Evidenza di questo sono le condizioni cliniche in cui il sistema nocicettivo periferico è lesionato, come la neuropatia da lebbra (Brand, 1993), la patologia di Charcot delle articolazioni nella tabe dorsale (Sanders, 2004) e le patologie dei canali ionici (Bennett and Woods, 2014): tutte queste sono condizioni in cui, in assenza di dolore, piccole sollecitazioni meccaniche, come il cammino, possono creare danni severi, non essendoci modulazione del movimento e del carico.
L’elettrofisiologia dei nocicettori è coerente con quest’interpretazione della nocicezione, dato che la maggior parte dei nocicettori si attivano sotto la soglia della percezione del dolore e molti neuroni centrali nocicettivi (come i WDR) si attivano anche per stimoli non nocicettivi (Kenshalo et al., 1980; Meyer et al., 2006; Willis and Coggeshall, 1978).
Il controllo nocicettivo del comportamento avverrebbe, per la maggior parte, in assenza di dolore, che essendo un’esperienza cosciente, renderebbe di conseguenza, il controllo nocicettivo di tipo “sub-cosciente”.
Alcuni studi di microneurografia evidenziano la correlazione diretta tra l’attività di alcuni nocicettori e l’esperienza del dolore, ma questi esperimenti non negano il contrario (Weidner et al., 1999). L’attività subconscia dei nocicettori modifica il comportamento continuamente, perché anche il più comune repertorio di movimenti richiede la nocicezione per evitare il danno (es: ogni movimento delle dita, anche, gomito e spalle al di fuori del suo naturale “range” di movimento può creare dolore).
Il comportamento motorio nella sua globalità è continuamente inibito dai nocicettori! Eppure questi continui aggiustamenti, atti ad evitare il danno, non sono stati oggetto di studio, tranne che per i riflessi nocicettivi: di conseguenza non ne conosciamo le vie anatomiche. L’attività nocicettiva subcosciente apporta al repertorio consolidato di movimento un’informazione contingente, atta a proteggere i tessuti.
In sintesi, noi crediamo che la nocicezione sia un processo fisiologico fondamentale che avviene in assenza di percezione del dolore. Nel linguaggio di Cristof Kock, il famoso neuroscienziato che studia la coscienza, sarebbe l’agente zombie del senso del dolore (Koch, 2012). La nocicezione assumerebbe valore di minaccia all’interno dell’apprendimento emotivo (innato e personale) e motiverebbe comportamenti da evitamento e strategie per non arrivare all’esperienza del dolore, il tutto in modo subcosciente. Ma quando si evoca l’esperienza dolore tutto cambia: si origina un nuovo apprendimento nocicettivo, chiamato sensitizzazione periferica e spinale, (Basbaum et al., 2009; Ikeda et al., 2003; Woolf and Salter, 2000) ed un nuovo apprendimento emozionale, che è tanto più potente quanto l’evento scatenante è saliente (cioè richiedente attenzione per la propria conservazione) e quanto è percepito come minacciante.
Dolore acuto
Nella definizione comune, il dolore è un’esperienza soggettiva che è comunemente causata dall’attività nocicettiva. La soglia tra nocicezione ed esperienza dolore non è comunemente pensata come fissa, ma può essere modulata dall’umore, dall’attenzione (Bushnell et al., 2013), dalle aspettative (Wiech et al., 2014), da una ricompensa economica (Vlaev et al., 2009) e da semplici istruzioni confondenti (Baliki et al., 2010).
Si sono cercati e si cercano tutt’ora i meccanismi per cui questi fattori, che possono essere riassunti come modulatori cognitivi ed emozionali, influenzino il dolore (le altre modalità sensitive); lo si sta facendo attraverso studi di f-MRI di aree specifiche, cercando i circuiti corticali di queste relazioni, al momento purtroppo con scarsi risultati (Apkarian et al., 2005; Bushnell et al., 2013).
Complementare e coerente a queste evidenze è il fatto che la percezione cosciente del dolore è qualcosa di estremamente mutevole e plastica, in cui un’afferenza nocicettiva standard non si tramuta in un’attività cerebrale fissa o in una percezione tipica. La percezione del dolore riflette momento per momento i cambi di giudizio riguardanti il “sé” e la relazione tra il “sé” e l’ambiente.
Esempi sono: il ritardo nella percezione del dolore di ore fino a giorni nei sopravvissuti agli orrori della guerra; l’esperienza pavloviana dei cani che salivavano in presenza di stimoli dolorosi (Pavlov, 2003); l’annullamento di comportamenti di fuga conseguenti al dolore da parte dei roditori, quando il dolore è presentato insieme al cibo (Foo et al., 2009).
Inoltre, nell’uomo i descrittori verbali del dolore ed il repertorio comportamentale (espressioni della mimica facciale, posturale, linguistica, motoria) riflettono un assortimento molto vasto e variabile, dipendente dal contesto e dalla cultura, e non una qualità soggettivamente comune. Il dolore riflette un’interazione tra memoria, attenzione, affettività ed afferenze sensitive. Ma se la nocicezione è continuamente attiva e il dolore no, va spiegato il fenomeno soglia tra la percezione cosciente e la nocicezione subcosciente.
Secondo la posizione classica, esiste un “gate control” sia a livello spinale che sovra spinale in cui, dal bilancio tra afferenze sensitive nocive ed innocue, si determina la presenza o l’assenza del segnale nocicettivo che, attraverso la via ascendente, arriva alla corteccia e da qui è interpretata come dolore (Melzack and Wall, 1965). Rientrano sempre nella posizione classica alcune varianti moderne che spiegano il dolore persistente come un’amplificazione centrale (spinale) dell’afferenza nocicettiva, chiamata sensibilizzazione centrale (Woolf and Salter, 2000.). Ma come detto prima, questa interpretazione solleva un problema: se definiamo la nocicezione come il processo neurale di codifica di uno stimolo”nocivo”, la definizione di nocicezione diventa ricorsiva; chi decide che lo stimolo è nocivo ?
Introducendo un punto di vista evoluzionistico, il fenomeno soglia è concepito come qualcosa di molto più complesso: la soglia del dolore emergerebbe da un bilancio tra gratificazione ed avversione, all’interno della storia d’apprendimento personale (conscio ed inconscio) e della valutazione dello stato attuale del “sé” e dell’ambiente (contesto).
Una volta emerso, il dolore monopolizzerebbe l’attenzione, interferirebbe con altri processi cognitivi ed imporrebbe un stato di umore negativo abbastanza a lungo per ottenere alcuni sintomi tipici sulla memoria e sul controllo del comportamento (Dennett, 1993). Capovolgendo la posizione classica, non sarà più il “gate control” a decidere quali informazioni far passare come nocicettive, ma saranno gli aspetti coscienti di questo stato di dolore che moduleranno la sensibilizzazione nocicettiva ed influenzeranno il “gate control” mediante vie discendenti (Vera-Portocarrero et al., 2006).
Sempre secondo la visone classica, la spiacevolezza è un aspetto intrinseco della definizione IASP di dolore e ci si aspetta che sia necessariamente parte dell’esperienza qualitativa del dolore. Alcuni studi di neuro-imaging hanno localizzato la spiacevolezza nell’area cingolata anteriore e nella corteccia dell’insula (Rainville et al., 1997 Segerdahl et al., 2015), ma senza un’evidenza convincente. Sembra invece che la spiacevolezza non sia specifica per il dolore, ma debba essere considerata una parte del repertorio emozionale che è sfruttata da questa particolare esperienza qualitativa (il dolore) e questo implicherebbe un importante ruolo di tutto il sistema limbico emozionale: corteccia prefrontale, amigdala, ippocampo, striato ventrale (Segerdahl et al., 2015). E’ stata anche chiarita l’anatomia funzionale del fenomeno soglia: un circuito riverberante tra tegmento ventrale/sostanza nigra e striato ventrale/nucleo accumbens, modulato dal sistema limbico e inputs corticali delle passate esperienze, valori, aspettative e salienza legate al sé (fig. 3).
In sintesi il dolore acuto non è un segnale d’allarme, ma è il fallimento del meccanismo (l’attività nocicettiva) preposta ad evitare il dolore.
Una volta che l’esperienza dolorosa è in atto, il meccanismo di avversione ha fallito o sta per fallire. Da questo momento il repertorio comportamentale è spostato a minimizzare il danno ritraendo l’organismo dall’ambiente responsabile della potenziale minaccia, per proteggerlo e promuovere la guarigione.

Fig 3. Immagine tratta da: “Nociception, Pain, Negative Moods, and Behavior Selection”, pubblicato su Neuron nel 2015 , di V.Apkarian e M. N. Baliki Il fenomeno soglia è il circuito tra tegmento ventrale/ sostanza nigra (GP/NR e VTA) e striato ventrale/nucleo accumbens (striatum/Nac) ed è influenzato dall’output limbico θ che a sua volta influenza ed è influenzato dall’afferenza nocicettiva e dal valore, l’aspettativa e la salienza dello stimolo
Il dolore acuto è quindi il passaggio dall’attività subcosciente dei nocicettori all’esperienza cosciente di spiacevolezza o forse sarebbe meglio dire di “distress” (reso non proprio fedelmente con il termine italiano “di minaccia”), come nell’articolo “Updating the definition of pain” di Amanda C de C Williams e Kenneth D. Craig, è stato egregiamente chiarito.
E’ inoltre improbabile che questo fenomeno riguardi solo la percezione del dolore, ma sembra che sia estendibile a tutte le altre modalità sensoriali. Ad esempio, c’è evidenza sperimentale che larga parte del campo visivo non entri a far parte della nostra esperienza cosciente visiva, eppure la percezione visiva è un “tutt’uno”, in cui le parti non sono fisicamente presenti. Esistono evidenze del fatto che l’attivazione della corteccia visiva primaria non basti ad ottenere l’esperienza cosciente visiva, ma è necessario un controllo “top-down” dalle cortecce frontali (Dehaene and Changeux, 2011). Un controllo simile sembra necessario anche per il dolore.
Noi crediamo che il controllo delle cortecce frontali (il giudizio) si embrichi nel circuito riverberante cortico-striatale che controlla la soglia di passaggio tra le afferenze sensitive (subcoscienti) e gli stati di coscienza corticali.
Lo strano caso del paziente H.M.
Il paziente H.M (uno dei più studiati nella storia delle neuroscienze per i suoi bizzari disturbi della memoria) operato di resezione della corteccia dell’uncus (con amigdala ed ippocampo bilaterale) aveva sviluppato un’insensibilità al dolore acuto termico in larga parte del corpo. Ma, contrariamente ai pazienti con danni del sistema nocicettivo periferico, non aveva nessuna lesione cutanea o alterazione dell’integrità corporea (Hebben et al.,1985).
Questo ci informa che mantenendosi intatto il sistema nocicettivo, permaneva la capacità sub-cosciente di evitare i pericoli. La soglia cosciente del dolore, in virtù della resezione del sistema limbico, era molto aumentata, pur mantenendosi tutti i controlli subcoscienti ed automatici dell’informazione nocicettiva.
Localizzazione dell’attività cerebrale nel dolore acuto
Una metanalisi di circa 300 studi che correlano l’attività corticale con l’esperienza del dolore è stata usata per mappare le principali aree di interesse. La piattaforma che ha effettuato questa metanalisi è stata https://www.neurosynth.org di Yarkoni et al., 2011.
In più di 3000 soggetti le aree attivate sono state: corteccia S2 bilaterale, corteccia dell’insula bilaterale (anteriore e posteriore), corteccia cingolata anteriore, talamo e grigio periaquedouttale (Fig. 4).

Fig 4. Immagine tratta da: “Nociception, Pain, Negative Moods, and Behavior Selection”, pubblicato su Neuron nel 2015 , di Vania Apkarian e Marwan N. Baliki I principali 6 nodi attivi dalle metanalisi di 3000 soggetti durante il dolore acuto
Tutte queste aree coprono il 15% dell’intera corteccia cerebrale, ma gli studi di neurofisiologia evidenziano solo uno sparuto numero di neuroni responsivi a stimoli nocicettivi nella corteccia (Chen et al., 2011b; Kenshalo and Isensee, 1983; Mazzola et al., 2009; Vierck et al., 2013), evidenziando un contrasto con gli studi di f-MRI.
La mappa di attività corticale correlata al dolore acuto, conosciuta come “pain-matrix” e che ha scatenato un dibattito serrato in ambito scientifico, deve essere interpretata con cautela, considerate le numerose limitazioni metodologiche e la sua semplicistica definizione di mappa del dolore. La specificità di ruoli diversi di queste aree rimane ancora vaga, così come analizzato da Poldrack et al. 2011; inoltre è poco plausibile che il 15% della corteccia sia responsivo solo al segnale nocicettivo.
Infatti, tutte le aree cerebrali della “pain matrix” rispondono anche ad altri stimoli, così come molti neuroni nocicettivi nel midollo spinale rispondono anche ad altri stimoli (propiocettivi, muscolari, tattili, viscerali).
Inoltre, i lavori di Iannetti and Mouraux, 2010; Liang, 2013; Mouraux, 2011; Wang, 2010, dimostrano che queste aree non sono specifiche per il segnale nocicettivo o per la percezione conscia del dolore, ma sono attivate anche da stimoli non nocicettivi e sembrano piuttosto rispondere alla salienza dello stimolo.
Tutto ciò dimostra che sia abbastanza inverosimile che nel cervello esista un tessuto specificatamente responsivo a stimoli nocicettivi o correlato specificatamente alla percezione del dolore, così come il modello Cartesiano aveva proposto e molti scienziati ancora seguono.
Modelli Cartesiani di ultima generazione
L’interpretazione Cartesiana può ancora esser rispolverata, se invece di considerare come specifica per il dolore un’area particolare (che come si è visto non è stata ancora dimostrata) si considera un’attività diffusa ed estesa a molte aree corticali (anche non classicamente ritenute nocicettive) e che tutta insieme potrebbe correlarsi in modo specifico alla nocicezione e/o al dolore percepito. Questo è stato recentemente evidenziato da un lavoro di Wager del 2013, dove mediante un sistema di “machine-learning” è stato creato un modello di previsione della percezione del dolore, che può discriminare la grandezza del dolore percepito o la sua eventuale assenza alla presentazione di uno stimolo. Un altro studio di Liang et al. 2013, che analizza i pattern di attività corticale nella corteccia sensitiva di un soggetto per varie modalità sensitive, ha dimostrato un specificità di attivazione per ogni modalità sensitiva, compreso il dolore. Inoltre questo studio ha dimostrato che ogni corteccia primaria (visiva, uditiva, somatosensoriale) si attiva anche per altre modalità sensitive e con pattern specifici (anche non con afferenze dirette, ma con loop cortico-corticali). Cosa questo significhi nel dettaglio è poco chiaro, ma un’ipotesi plausibile è che questo processo permetta l’integrazione multisensoriale dell’esperienza nel suo complesso, così come è vissuta. Secondo questi studi sarebbe dunque possibile distinguere tra dolore e le altre modalità sensitive. Risulta però poco chiaro se il segnale identificato è specificatamente correlato alla percezione del dolore o rifletta risposte secondarie o postume alla presenza del dolore.
Dolore, visione e coscienza
Confrontando il processo di codifica corticale della visione con quello della percezione del dolore, si nota una profonda differenza di avanzamento di conoscenze. Attualmente pensiamo che 1/3 della corteccia sia preposta all’analisi visiva, con una suddivisione in circa 30 moduli. C’è una specializzazione in questi moduli ed una interrelazione la cui evidenza è in continua crescita (Felleman and Van Essen, 1991; Wandell and Winawer, 2011). In contrasto, come abbiamo visto, c’è ancora dibattito sulla presenza o meno di un tessuto corticale specializzato per processare l’informazione nocicettiva.
Eppure in entrambi il meccanismo che trasforma un input sensoriale in una percezione cosciente rimane misteriosa.
La percezione cosciente è qualitativamente equivalente nella visione e nel dolore, anzi in un certo senso “ l’intensità soggettiva del dolore è anche maggiore che nella visione; non a caso se vogliamo sapere se si sta sognando o no ci si da un pizzico (oppure si da un calcio su una pietra)”; ciò implica che il dolore è più saliente della visione e che l’intensità della salienza di una specifica esperienza qualitativa non dipende dalla quantità di tessuto corticale dedicato ad analizzare quella modalità.
Benché conosciamo dettagliatamente le caratteristiche e le modificazioni delle proprietà dell’informazione visiva, attraverso singoli neuroni e moduli, ancora siamo deficitari nella capacità di spiegare come venga ricostruita un’esperienza visiva integrata ed olistica (Rokers et al., 2009).
Anche se delle sei aree ricostruite metanaliticamente e maggiormente associate all’esperienza del dolore (Fig. 3), ve ne sono alcune associate a caratteristiche sensitive, altre emotive, altre di intensità ed altre di attenzione, questo non basta a spiegare l’esperienza conscia del dolore. Qualsiasi percezione cosciente (ed il dolore tra esse) deve tenere conto delle nuove evidenze in termini di studio della coscienza e la sua emergenza dal bilancio tra integrazione e segregazione dell’informazione, attraverso network corticali anche di lunga distanza (Dehaene and Changeux, 2011). Al momento gli scienziati che si occupano del dolore, così come delle altre modalità sensitive, rimangono ancorati ad una visione psico-fisica.
Così come per la recente dissociazione nella studio della visione tra circuiti cerebrali per gli stimoli visivi consci ed inconsci (Dehaene et al.,2014), così crediamo che molte discordanze sulle evidenze della rappresentazione centrale del dolore possano essere risolte dividendo la nocicezione inconscia dal dolore conscio e delineandone i meccanismi.
Dobbiamo tenere a mente ciò che dice K. Koch in “Consciousness: Confessions of a Romantic Reductionist (MIT Press 2012)”: “dobbiamo resistere all’attrazione ipnotica di interpretare in modo frenologico le aree cerebrali evidenziate dalle tecniche di neuro-imaging funzionali: la percezione delle facce è qui, il dolore lì, la coscienza è lassù. La coscienza non nasce da regioni, ma da network molto integrati all’interno e tra le regioni” .
In conclusione il dolore acuto potrebbe essere proprio quell’esperienza cosciente che focalizza l’attenzione in modo assoluto ed è sentita come severa minaccia, scatenata da eventi (interni o esterni) aventi alta “salienza” e cioè a cui è stato attribuito un valore di pericolo per l’integrità e la propria salvaguardia, basandosi sulle memorie emotive (inconsce) e biografiche (consce) pregresse, anche molto precoci (primi anni di vita) o innate, selezionate dalla pressione evolutiva sin dai primordi.
Dolore cronico
Il termine dolore cronico è stato coniato per la prima volta dal Dr. Beecher nel 1950. Egli ha sottolineato che, nel contesto clinico, il dolore ha spesso una durata estremamente lunga, e il rapporto tra il dolore e il suo stimolo scatenate o lesione rimane spesso impreciso e imprevedibile; è per questo che la ricerca sul dolore e sugli analgesici dovrebbe essere centrata su studi clinici condotti in pazienti reali che soffrono di dolore e non solo su modelli sperimentali.
Lo studio del dolore mediante f-MRI sta lentamente convergendo verso la conclusione di Beecher, perché l’accumulo di prove dimostra che il cervello nel dolore cronico non è equivalente al cervello nel dolore acuto persistente evocato in setting sperimentali.
La definizione di dolore cronico rimane però tautologica, perché semplicemente afferma che si tratta di un dolore di lunga durata, o di un dolore persistente oltre il normale periodo di guarigione. Negli ultimi 30 anni, studi in modelli animali di dolore persistente hanno stabilito che il dolore cronico è associato ad una riorganizzazione della segnalazione periferica afferente, cambiando la sensibilità dei nocicettori e forse delle afferenze tattili.
A livello del midollo spinale ora sappiamo di centinaia di cambiamenti molecolari e di riorganizzazione dei circuiti neuronali e gliali, ognuno dei quali può dar luogo ad una maggiore sensibilità delle afferenze e che in genere hanno come fine un processo di ”sensibilizzazione centrale” (Basbaum et al., 2009; Woolf e Salter, 2000). Evidenze accumulate su dati di “imaging” cerebrale mostrano anche che il cervello umano subisce una profonda riorganizzazione in condizioni di dolore cronico (Apkarian et al., 2011). Questa riorganizzazione neuronale florida dalla periferia alla neocorteccia (Fig. 1) sembra l’unica evidenza che accomuna i diversi tipi di dolore cronico, e concorda fortemente con il punto di vista di Beecher che afferma che, per capire il dolore cronico, si devono studiare i pazienti affetti da vari tipi di dolore cronico, nelle sue miriadi di manifestazioni cliniche, confrontando tra di loro i vari tipi e anche all’interno di un tipo, i vari pazienti. Le proprietà apparentemente specifiche del cervello che sono collegate affidabilmente con distinte condizioni di dolore cronico, nonché le riorganizzazioni a lungo termine del cervello, specifiche per diagnosi di diverse condizioni di dolore cronico, giustificano l’idea che il dolore cronico sia uno stato di malattia maladattativa neuropatologica (Davis e Moayedi, 2013; Tracey e Bushnell, 2009).
Dal punto di vista più generale, e dato il modello che abbiamo avanzato sul ruolo dei circuiti striatali nella conversione da nocicezione a dolore acuto, si può ulteriormente espandere il nostro modello proposto per coinvolgere anche il dolore cronico.
Prendendo in prestito dalla letteratura sui meccanismi alla base dei comportamenti di dipendenza e di ricompensa positiva (Robinson e Kolb 2004; Schultz, 2000;. Volkow et al, 2010; Willuhn et al., 2012), noi affermiamo che cambiamenti a lungo termine dei meccanismi soglia, che portano la conversione dalla nocicezione al dolore, siano alla base anche della transizione tra dolore acuto e dolore cronico (Figura 3). Inoltre, proponiamo che il cambio di soglia dipenda dalla riorganizzazione sinaptica del circuito limbico, basata sull’apprendimento (Apkarian, 2008;. Apkarian et al, 2009).
Prese insieme, queste idee possono essere semplificate come una soglia limbica ribassata per la percezione cosciente del dolore che rende il cervello funzionalmente dipendente (addicted) dal dolore. La soglia ribassata dello striato si propone essere mediata da meccanismi di apprendimento guidati dalle proprietà limbiche (Apkarian, 2008;. Apkarian et al, 2009), che inducono riorganizzazione delle tracce di memorie neocorticali (Johansen e Campi, 2004; Li et al., 2010; Xu et al., 2008)
Il cervello umano nel dolore cronico: un modello generale
Il circuito ventrale striatale collega nocicezione, dolore acuto e dolore cronico. Questo circuito valuta la salienza dell’imminente dolore, così come il valore di ricompensa previsto per il sollievo del dolore (Baliki et al., 2010). Dato che il suo output controlla i comportamenti basati sulla motivazione, le proprietà di questa circuiteria diventano critiche nella comprensione della transizione da dolore acuto a cronico. Esistono ora prove che alcune proprietà del cervello siano dei candidati ad essere fattori di rischio, mentre altri riflettono il passaggio al dolore cronico, e che il circuito mesolimbico guidi la riorganizzazione sinaptica del cervello attraverso meccanismi di apprendimento. Questi risultati suggeriscono che la cronicizzazione del dolore può essere suddivisa in quattro distinte fasi separate temporalmente e funzionalmente (Fig. 5).

Fig 5. Immagine tratta da: “Nociception, Pain, Negative Moods, and Behavior Selection”, pubblicato su Neuron nel 2015 , di Vania Apkarian e Marwan N. Baliki Le 4 fasi dello sviluppo del dolore conico: 1)Predisposizione;2)Lesione;3)Transizione;4)Mantenimento.L’apprendimento mesolimbico permette il passaggio alla transizione, dato un terreno di predisposizione e un evento lesivo.
Si presume che, a causa di forze genetiche e di sviluppo, soggetti diversi sono inclini a sviluppare dolore cronico a seguito di specifiche lesioni. Semplificando, si assume che questi fattori predisponenti vengono catturati dalla anatomia e fisiologia del cervello limbico.
Tenuto conto di tali predisposizioni, una specifica lesione dà avvio ad un grande invio di impulsi nocicettivi, attivando il circuito corticostriatale in due possibili risposte: o una che va di pari passo alla lesione e recupera in tempo verso lo stato di salute, o una risposta che diminuisce la soglia corticostriatale amplificando funzionalmente i segnali afferenti, aumentando il guadagno all’apprendimento, inducendo la creazione di nuove tracce neocorticali (anatomiche e funzionali) di memoria, creando così lo stato di dolore cronico (Figura 6).
Si noti che è completamente coerente con le osservazioni di abolizione transitoria di dolore cronico dal blocco massiccio di afferenze nocicettive (Haroutounian et al 2014.; Vaso et al., 2014), perché l’abbassamento della soglia mesolimbica diventa irrilevante nella completa assenza di input. Il modello solleva anche questioni molto raffinate: l’attività continua nocicettiva afferente generata in pazienti con dolore cronico sarebbe di per sé percepita come dolorosa da parte di soggetti sani?
Il nostro modello presuppone che il dolore cronico dipenda dall’interazione tra il fenomeno della soglia del cervello e l’input sensoriale collegato alla lesione. La lesione nella maggior parte dei casi è un’attivazione dell’afferente nocicettivo: tuttavia, in alcune condizioni, ci possono essere anche driver centrali, come nel dolore neuropatico periferico o centrale, o in condizioni di dolore fantasma.

Fig 6 Immagine tratta da: “Nociception, Pain, Negative Moods, and Behavior Selection”, pubblicato su Neuron nel 2015 , di Vania Apkarian e Marwan N. Baliki θ soglia limbica del dolore che si modifica; N afferenza nocicettiva.A parità di afferenza nocicettiva potremo avere una persistenza del dolore o una riduzione
La comunità di ricerca sul dolore ha a lungo discusso il contributo relativo dell’organo terminale (struttura corporea lesionata) in relazione al cervello o alla predisposizione genetica (Robinson e Apkarian, 2009). Il modello proposto è una combinazione di entrambi ed è previsto che i pesi relativi di ciascuna componente diano origine ad una condizione specifica. Ad esempio, la fibromialgia sembra essere in gran parte guidata da predisposizione centrale (Phillips e Clauw, 2011), anche se recentemente nocicettori ipereccitabili sono stati descritti in questi pazienti (Serra et al., 2014). D’altra parte, l’osteoartrite può avere un grande contributo dal nocicettore periferico, come dimostra il tasso di successo di sollievo dal dolore con intervento di sostituzione articolare (Buchbinder et al., 2014).
Il modello suggerisce anche che il tasso di passaggio al dolore cronico sia condizione specifica e dipenda dalle proprietà del cervello limbico. Si pensa che svelare le specifiche di questo circuito in varie condizioni cliniche di dolore cronico aprirà la strada allo sviluppo di nuovi trattamenti e/o terapie di prevenzione. Poiché questo modello assume che le proprietà del cervello siano i determinanti principali del rischio di sviluppare dolore cronico, il dolore cronico è definito più come una malattia neurologica e in misura minore un’anomalia nocicettiva.
Il cervello umano nel dolore cronico: Anatomia
Circa 10 anni fa abbiamo scoperto anomalie cerebrali nell’anatomia regionale correlate con l’intensità e la durata del dolore in pazienti con mal di schiena cronico (CBP) (Apkarian et al., 2004). Questa osservazione iniziale è ora replicata in molte condizioni cliniche di dolore, che mostrano principalmente diminuzioni regionali in densità di materia grigia. Un confronto diretto tra le diverse condizioni cliniche di dolore indica mappe parzialmente sovrapposte di alterazioni anatomiche (Baliki et al., 2011). I meccanismi e i processi sottostanti tali modifiche rimangono poco chiari e speculativi. C’è una crescente evidenza che questi decrementi regionali di materia grigia in parte si possano rinormalizzare dopo miglioramento del dolore cronico ( Ceko et al, 2015;. Gwilym et al, 2010;. Moayedi et al, 2011;. Rodriguez-Raecke et al., 2009; Seminowicz et al., 2011).
L’ipotesi più semplice per quanto riguarda i processi fisiologici che controllano questi cambiamenti anatomici della materia grigia è la nozione che la misura del singolo “voxel” (profilo medio di milioni di neuroni) rifletta variazioni locali della densità sinaptica, anche se l’atrofia neuronale può essere presente, dato che alcuni di questi cambiamenti persistono nel corso di decenni (Baliki et al., 2011).
Una meta-analisi delle proprietà della materia grigia del cervello per più condizioni di dolore, se analizzate allo stato di riposo (resting state), identifica un insieme di reti (principalmente le reti della salienza e dell’attenzione) come i circuiti principali comunemente colpiti, mentre le regioni sensoriali sembrano mostrare più una riorganizzazione condizione-specifica (Cauda et al., 2014).
Il nostro studio longitudinale, dove pazienti con dolore sub-acuto lombare (SBP) sono stati monitorati per oltre 1 anno nel loro decorso clinico, sia che andassero verso un recupero (SBP-R), sia verso la persistenza del dolore (SPB-P), ha indicato che i decrementi di materia grigia si verificano solo nel SBP-P, con modifiche a partire dai primi mesi, proporzionalmente a modifiche della connettività funzionale e all’intensità del dolore alla schiena (Baliki et al., 2012). Tutto questo implica fortemente che questo riordino anatomico sia parte del processo di transizione verso il dolore cronico.
Anche anomalie cerebrali della sostanza bianca sono state osservate in condizioni di dolore cronico. Sembra infatti che l’anisotropia frazionaria della sostanza bianca regionale (che riflette i cambi della proprietà della mielina) possa essere collegata ai cambiamenti della sostanza grigia (Geha et al., 2008), il che implica meccanismi condivisi tra i due processi.
Un certo numero di studi ora mostrano anomalie della sostanza bianca regionali in diverse condizioni di dolore cronico (Chen et al, 2011a.; Ellingson et al 2013.; Khan et al., 2014). D’altra parte, nel nostro studio longitudinale di SBP, è stato osservato che le differenze della materia bianca tra SBP-P e SBP-R, che erano già presenti nella scansione del cervello, si sono mantenute, senza ulteriori variazioni, per oltre 1 anno (Mansour et al., 2013).
Quest’ultimo studio ha concluso che deviazioni specifiche dalla norma della sostanza bianca sono più probabilmente fattori di rischio preesistenti per lo sviluppo di dolore cronico lombare (CBP).
Attività cerebrale nel dolore cronico correlata alla percezione
Quello che ci aspetteremmo in un modello cartesiano di dolore cronico è un’attività continua ed aumentata delle regioni cerebrali identificate per il dolore acuto (tutte o parte delle regioni viste in Figura 4).
Tuttavia, quando l’attività cerebrale è rapportata ai resoconti soggettivi delle spontanee fluttuazioni del dolore percepito (Baliki et al., 2006), si osserva un’attività specifica del cervello per il dolore cronico, distinto da quella per il dolore acuto, dove condizioni di dolore cronico attivano più regioni del cervello limbico ed emozionale, e che le diverse condizioni di dolore cronico attivano zone specifiche (Apkarian et al., 2011).
I risultati dei nostri studi longitudinali, infatti, dimostrano come l’attività cerebrale nel dolore spontaneo (tipico nelle condizioni di dolore cronico), si sposti dinamicamente dalla regioni sensoriali del cervello alle regioni limbiche/emozionali (Hashmi et al., 2013).
Nei primi mesi dello studio sul decorso clinico ad 1 anno del SBP (10-15 settimane dopo l’inizio del mal di schiena), l’attività cerebrale per il dolore di schiena corrisponde esattamente all’attività per il dolore acuto. Però, con il progredire dei soggetti verso SBP-P o verso SBP-R (1 anno dopo), l’attività del cervello divergeva nei due gruppi, mostrando l’attività cerebrale al minimo nei SBP-R (al di sotto della soglia di rilevamento), mentre nei soggetti SBP-P mostrava una diminuzione dell’attività nelle regioni sensoriali e maggiore attività nella corteccia prefrontale mediale e l’amigdala. L’ultimo spostamento spaziale sembra verificarsi anche se questi soggetti giudicano il loro mal di schiena come sostanzialmente invariato nel corso del monitoraggio di 1 anno. Quindi, sembra che la cronicizzazione del dolore, accompagnata da una riorganizzazione funzionale dalla materia grigia e della connettività e da una riduzione della capacità di attivare la neurotrasmissione oppioide centrale (Martikainen et al., 2013), renda l’esperienza del dolore come più soggettiva/intrapersonale e più emotiva.
Predire Transizione da acuto a dolore cronico
La misura in cui la transizione al dolore cronico può essere prevista dalle proprietà del cervello è una questione molto importante, in quanto apre la strada ad una medicina basata sulle prove di evidenza personalizzata (Denk et al., 2014). Le proprietà cerebrali della sostanza bianca sembrano un fattore predittivo (Mansour et al., 2013): infatti, quando misurata entro settimane dopo l’evento scatenante, riesce a prevedere SBP-P e SBP-R ad 1 anno con una probabilità che va dall’ 80% al 100% di precisione. Un altro fattore predittivo identificato dalla stesso studio longitudinale (Baliki et al., 2012) è la connettività funzionale cortico-striatale. Quest’ultima è costante e più forte in SBP-P rispetto a SBP-R ad oltre 1 anno e, al momento di entrata in studio, poteva prevedere la cronicizzazione del dolore con circa l’80% di precisione. Questi risultati indicano che le proprietà del cervello limbico, e le sue risposte all’evento causale iniziale, sono il determinante primario (spiegano quasi tutta la variabilità della misura dell’outcome) per il passaggio al dolore cronico, almeno per il mal di schiena. Va notato, tuttavia, che questo studio rimane unico nel suo genere e attende quindi la replica in altre condizioni di dolore cronico.
Apprendimento e dolore cronico
Sin dai lavori di Pavlov, è noto che il dolore è un potente stimolo avversivo che crea memorie salienti. Induce apprendimento di ricordi associati ad un singolo evento, potenzialmente della durata di una vita. Questi concetti sono stati utilizzati nelle neuroscienze dell’apprendimento e della memoria per più di un secolo. Sorprendentemente, hanno avuto scarso impatto sulla ricerca sul dolore.
In un recente articolo di rassegna (Apkarian, 2008) abbiamo formulato il rapporto tra apprendimento e dolore cronico:
“Il dolore cronico è definito come uno stato di continua sofferenza, mantenuto a lungo dopo l’iniziale danno e dopo che la lesione è guarita. In termini di apprendimento e memoria si potrebbe riformulare questa definizione come: il dolore cronico è una persistenza della memoria del dolore e/o l’impossibilità di estinguere la memoria del dolore evocato dal danno iniziale.”
“La nuova ipotesi che avanziamo è che il dolore cronico sia: uno stato di continuo apprendimento nel quale associazioni emotive avversive sono continuamente (e anche casualmente) create tra eventi incidentali (stimolo condizionato) e il dolore (stimolo incondizionato), semplicemente dovute alla persistenza del dolore. La continua e simultanea presenza del dolore non permette l’opportunità del fenomeno dell’estinzione, perché non appena il soggetto è ri-esposto all’evento condizionante è ancora in uno stato di dolore. Fallendo l’estinzione, quindi, l’evento diventa un rinforzo per associazioni avversive”.
Sulla base di questi concetti, abbiamo espressamente suggerito che l’interazione tra la corteccia cerebrale prefrontale e il circuito dell’apprendimento limbico dovrebbe essere fondamentale per il transito da dolore acuto a dolore cronico (Fig. 7). Il concetto generale è che un’afferenza nocicettiva, che tende ad essere transitoria nell’organismo sano e quindi evoca principalmente la percezione del dolore acuto (con attivazione del cingolo anteriore, ACC, e insula), può anche stabilire, attraverso il circuito limbico, associazioni mnesiche, che però sono a poco a poco estinte nel tempo. Tuttavia, quando l’ingresso nocicettivo è più intenso e persistente, e sulla base di una predisposizone, si può preferenzialmente coinvolgere il circuito limbico, comprendente nucleus accumbens (NAC), amigdala (AmyG) e ippocampo (Hipp), portando a nuovi apprendimenti e processi di memoria. Questi percorsi sinaptici forgiati attraverso l’apprendimento a loro volta interagiscono con i circuiti corticali prefrontali mediali e laterali (mPFC, lPFC) e spostano l’attività corticale da una percezione nocicettiva ad uno stato di sofferenza più emotiva.

Fig 7.Tratta da Chronic pain: The role of learning and brain plasticity. A.R. Mansour, M.A. Farmer, M.N. Baliki and A. Vania Apkarian.La nocicezione prima di arrivare a livello delle corteccie dell’insula, ACC e corteccia cingolata, passa per il i nuclei subcorticali del limbico (n.accumbens,amigdala, ippocampo) creando nuove tracce mnesiche e confrontandosi con le vecchie.
In questo contesto, sappiamo anche che le vie discendenti modulatorie possono essere controllate in modo critico attraverso i circuiti prefrontali e limbico, e che questi sistemi possono in realtà anche influenzare lo stato di eccitabilità delle afferenze primarie, così come i neuroni del midollo spinale.
Quindi proponiamo che, dati certi fattori predisponenti, lo stato della rete mesocorticolimbica determini se gli ingressi nocicettivi diventino transitori o persistenti, o attivando preferenzialmente percorsi di estinzione o, inversamente, rafforzando i segnali di apprendimento che amplificano le proprietà affettive degli input nocicettivi. Un’analogia di questo processo spetta ai meccanismi del comportamento legati alla tossicodipendenza, in cui l’esposizione ripetuta a una droga gratificante, e che porta dipendenza, induce una incapacità di sopprimere il comportamento indesiderato. Nel caso del dolore cronico, percezioni e comportamenti correlati al dolore diventano esagerati e persistono attraverso l’apprendimento associativo coordinato dalla rete del mesolimbico. L’apprendimento è guidato sia da memorie implicite che esplicite, che interagiscono con i segnali di salienza e di valutazione sub-cosciente e che determinano la forza associativa delle nuove sinapsi. Questi processi di apprendimento interagiscono e retroagiscono sulle strategie di “coping” del soggetto, provenienti dalle esperienze passate.
Meccanicismi paralleli tra stress, ansia, depressione e dolore cronico
Ampia evidenza supporta la nozione che le più diffuse manifestazioni cliniche delle emozioni negative, l’ansia e la depressione, riflettano uno spettro comune di sintomi con meccanismi sovrapposti (Watson, 2005). Lo stress cronico, in particolare, è emerso come un fattore di fondo dominante e comune. Qui proponiamo che la nostra interpretazione della nocicezione e del dolore come motivatori ed induttori di comportamenti specifichi, possa essere estesa ad incorporare stati d’animo negativi (Coenen et al., 2011).
Proprio come il dolore motiva la prevenzione di ulteriori danni alle persone e promuove comportamenti che migliorano la guarigione, l’ansia può essere ripensata come uno stato emotivo, sostenuto dalla eccitazione simpatica, che promuove comportamenti che diminuiscono anticipatamente il pericolo all’interno di uno spazio fisico contiguo e relativamente a brevi periodi di tempo futuro. Inoltre, la depressione può essere pensata come una generalizzazione più globale della percezione di avversione al proprio ambiente. In tal caso, il pericolo percepito o previsto riflette un livello più astratto di cognizione che si traduce nel vincolare lo spazio personale (attraverso l’isolamento sociale, la ridotta attività fisica e il diminuito comportamento motivato). Così, proprio come la nocicezione e il dolore proteggono contro le lesioni personali, limitando i comportamenti, gli stati d’animo negativi riducono al minimo l’esposizione al pericolo e promuovono la sopravvivenza, inibendo il comportamento. Inoltre, in modo simile al dolore cronico, la persistenza di stati d’animo negativi diventa un processo disadattativo, almeno parzialmente mantenuto da meccanismi neuropatologici. In questo quadro, i meccanismi cerebrali alla base della transizione da stati d’animo negativi acuti a più persistenti, dovrebbero essere paralleli a quelli descritti per la cronicizzazione del dolore. Infatti, sia studi sui modelli animali che studi di brain imaging umani, mostrano forti somiglianze tra disturbi dell’umore e del dolore cronico, e entrambe le condizioni implicano criticamente circuiti del cervello limbico. Tra le più importanti, le alterazioni strutturali e funzionali del circuito striatale ventrale e tegmentale-ventrale associate con anedonia (Russo e Nestler, 2013) sono in linea con il fenomeno soglia che abbiamo discusso per il dolore. Proprio come le condizioni di dolore cronico sono associate con la diminuzione del volume dell’ippocampo (Khan et al, 2014; Mutso et al, 2012), una ricca letteratura parallela indica che la depressione è associata alla diminuizione del volume ippocampale e ad una diminuzione della densità sinaptica e gliale, sulla base di imaging cerebrale e prove post-mortem (Brown et al 2014.; Campbell et al., 2004; Cze’ he Lucassen, 2007).
Evidenze meno forti ed ancora equivoche mostrano una diminuzione del volume dell’amigdala (Hickie et al., 2007; Whittle et al., 2014) e della corteccia prefrontale mediale.
La depressione maggiore nell’adolescente è ora strettamente correlata con la diminuita condivisione di informazioni tra l’amigdala e l’ippocampo (Cullen et al., 2014), così come è si visto che è diminuita la condivisione delle informazioni tra l’ippocampo e la neocorteccia nel dolore cronico (Mutso et al., 2013). Inoltre, la connettività tra la corteccia prefrontale mediale e il nucleo accumbens è diventato un obiettivo primario per la stimolazione neurochirurgica per il trattamento della depressione intrattabile (Mayberg et al.,2005; Ressler e Mayberg, 2007), con l’intenzione di modulare proprietà del circuito corticostriatale. Diminuzione del volume dell’ippocampo e dell’amigdala sono anche stati descritti nel disturbo post traumatico da stress (PTSD) (Chao et al 2013, al 2014.; Gilbertson et al., 2002; Starcevic et al., 2014), e predisposizioni microstrutturali della materia bianca in PTSD riflettono la vulnerabilità a lungo termine (Sekiguchi et al., 2014), come osservato anche per il CBP (Mansour et al., 2013). Negli esseri umani, le proprietà di risposta dell’amigdala sembrano indicare il rischio di sviluppare PTSD (McLaughlin et al., 2014), e nei roditori la suscettibilità alla risposta allo stress dipende dal volume dell’ippocampo e dal suo funzionamento (Nalloor et al, 2014; Tse et al, 2014). Il tinnio cronico, che è una persistente sensazione sgradevole di ronzio o “ronzio nelle orecchie”, è attualmente definito come un disregolazione della rete limbica, soprattutto a causa dell’iperattività dello striato ventrale accoppiato alla diminuzione della materia grigia nella corteccia prefrontale mediale (Leaver et al., 2011). Quest’ultimo risultato è altamente coerente con la nostra idea, che spiegherebbe l’acufene come uno spostamento della soglia mesolimbica per la percezione cosciente dei suoni sgradevoli e dolorosi, causati o da un insulto periferico (concerto rock o rave, lavori) o da eventi centrali (stress), accoppiati a predisposizioni limbiche.
La diversa configurazione di questi fattori predisponenti, l’evento scatenante (vale a dire lesioni personali, esperienze traumatiche), l’apprendimento avversivo potenziato dall’eccitazione/attenzione, il mantenimento a lungo termine di queste tracce di memoria limbiche maladattative, probabilmente contribuiscono alla vasta gamma di espressioni fenotipiche che vengono utilizzate per differenziare diagnosi cliniche.
Nel complesso, sembra che ci sia una notevole sovrapposizione tra le modificazioni patologiche delle strutture cerebrali che, o conferiscono vulnerabilità, o sono associate a cronicizzazione del dolore e stati d’animo negativi. Non sorprende quindi che queste condizioni siano spesso comorbidità e in effetti, vi è ora una piccola, ma emergente letteratura, per quanto riguarda l’interazione tra stati d’animo negativi e dolore acuto e cronico (Jensen et al, 2012; Lopez-Sola et al, 2010; Mutschler et al, 2012; Rodriguez-Raecke et al 2014.; Schweinhardt et al., 2008; Strigo et al., 2013). Finora, la prova più convincente è l’osservazione che, nei soggetti pessimisti, l’attività dello striato ventrale per la previsione di sollievo dal dolore (Leknes et al., 2011), corrisponde all’attività fasica anomala osservata per il previsto sollievo dal dolore, nella stessa regione del cervello in pazienti con CBP (Balikiet al., 2010). Così, la contiguità concettuale tra dolore e stati d’animo negativi, può essere estesa anche ai corrispondenti stati patologici persistenti.
Nonostante la loro ampia sovrapposizione, vi è il pericolo di semplificare eccessivamente i paralleli meccanicistici tra dolore e stati d’animo negativi; abbiamo il sospetto che le proprietà del cervello limbico abbiano configurazioni differenti nelle varie condizioni di dolore cronico, rispetto ai diversi tipi di stati d’animo negativi persistenti. Ad esempio, il sito di stimolazione corticale, utilizzato nel trattamento della depressione, è più orbitale di quello situato nella corteccia prefrontale mediale che si correla con fluttuazioni soggettive in CBP e che prevede la cronicizzazione del dolore.
C’è anche una buona prova che stati d’animo negativi e dolore cronico possono coesistere senza interagire tra loro (Jensen et al., 2010).
Conclusioni
La comunità scientifica, nell’ambito del dolore, ha fatto notevoli sforzi per stabilire la presenza e identificare le proprietà del sistema nocicettivo. Questo sforzo ha avuto successo, ma nel processo di studio, il contributo del cervello emotivo sulla percezione del dolore ha ricevuto poca attenzione seria. La nozione generale che il dolore possa essere compreso nel contesto della selezione evolutiva del comportamento e che i suoi meccanismi sottesi siano sepolti nel fondo del cervello limbico, non è un’idea nuova. Infatti, la prima formulazione del concetto di cervello limbico di MacLean (MacLean, 1955), che per primo ha caratterizzato i principali componenti del cervello che generano risposte emotive per l’ambiente, afferma che l’espressione del dolore dipende da questo circuito. Successivamente Melzack e Casey (Melzack e Casey, 1968), espandendo il modello della teoria del cancello, hanno presentato il modello di “controllo motivazionale e centrale” per il dolore e hanno dichiarato:”… che il dolore è composto sia da dimensioni sensoriali che affettive era già chiaro a Sherrington …” e citando un’affermazione di Sherrington stesso che ”… il tono affettivo è un attributo di tutte le sensazioni, e il tono affettivo attribuito alla sensibilità cutanea è il dolore della pelle” (Sherrington, 1900). Melzack e Casey hanno concluso che il dolore deve impegnare il cervello limbico, in particolare l’ippocampo e l’amigdala. Anche se questo documento è concettualmente fertile (è stato citato più di 1300 volte in letteratura), i concetti alla sua base per quanto riguarda il ruolo del circuito limbico nel dolore, non sono riusciti ad avanzare fino all’avvento di studi qui descritti. Per esempio, in un modello di dolore proposto circa 20 anni dopo, l’autore mette semplicemente un punto interrogativo accanto al contributo del cervello limbico agli aspetti affettivi e motivazionali del dolore (Prezzo e Harkins, 1992).
Abbiamo fornito una vasta gamma di prove che la nocicezione, il dolore, e gli stati d’animo negativi possano essere considerati come un unico continuum nello spettro dell’avversione, nel quadro concettuale della selezione evolutiva del comportamento. Inoltre, suggeriamo che la cronicizzazione di tali stati possa essere pensata come composta da quattro distinte fasi, che sono subordinate alla predisposizione limbica; i precisi dettagli meccanicistici, in particolare per quanto riguarda il dolore, devono ancora essere svelati.
La nostra sintesi di queste evidenze, che si stanno rapidamente accumulando, sia in studi di imaging del cervello umano, che in modelli di roditori, fornisce una prova convincente che la percezione del dolore, distinta dalla nocicezione, è parte dell’apprendimento di un continuum del comportamento avversivo, che si manifesta come dolore, ansia e depressione persistente, sulla base di una vulnerabilità preesistente, dettata dall’apprendimento emotivo (la propria storia emotiva) e dalla percepita prossimità fisica della fonte del pericolo (che spiegherebbe la relatività soggettiva della dimensione dello spazio peripersonale).
Per Bibliografia vedi negli articoli originali.