Autore:
Dott. Artur Laca
Fisioterapista, Spine center Ferrara – Medicina del Dolore

 

Il dolore è una esperienza umana universale. La ricerca sul dolore negli ultimi anni ha fatto passi avanti molto importanti. Queste nuove conoscenze ci permettono di sapere un po’ di più come funziona, come nasce e come si modula l’esperienza del dolore e di conseguenza possiamo offrire delle risposte sempre più mirate ai pazienti che soffrono di sindromi dolorose.

Sappiamo che l’esperienza del dolore è prodotta a livello del nostro cervello. Questo riguarda tutti i tipi di dolore, sia quello acuto che quello persistente o cronico.La principale differenza tra il dolore acuto e quello persistente è che il primo è spesso correlato con una lesione o un danno ai tessuti periferici (un caviglia slogata, un tendine infiammato, una lesione muscolare), invece nel dolore persistente questa correlazione  tra dolore e  coinvolgimento dei tessuti periferici è molto minore o addirittura assente.

Da tali presupposti risulta evidente che la gestione del paziente con dolore persistente debba basarsi su un modello di riferimento più ampio.
Il modello biopsicosociale ha sostituito l’approccio biomedico riduzionista della medicina.

Il modello biopsicosociale è un modello concettuale secondo il quale, nella valutazione della malattia di un individuo, anche i fattori personali, psicologici, sociali e ambientali vengono presi in considerazione, congiuntamente alle variabili biologiche. In questo modello, il dolore è considerato come un pattern comportamentale psicofisiologico interattivo, che non può essere separato in componenti indipendenti psicosociali e fisiche.

Un trattamento interdisciplinare basato su tale modello rappresenta l’approccio più efficace da adottare per i pazienti con dolore cronico, sia sotto il profilo clinico, che dal punto di vista del rapporto costo-beneficio.

L’eziologia del dolore persistente è multifattoriale e un ruolo fondamentale è assunto anche dai molteplici fattori di rischio denominati “yellow flags”–“bandiere gialle”, tra cui una condizione familiare sfavorevole, kinesiofobia, informazioni non corrette, comportamenti disfunzionali di gestione della malattia, ansia e depressione, e le “blu/black flags”–“bandiere nere/blu”, che sono i fattori lavorativi  (lavori con movimenti ripetuti, posizione mantenute e lavoro insoddisfacente).

Le “bandiere gialle” sono fattori prognostici negativi per la trasformazione del dolore da acuto a persistente, perciò diventa molto importante saperli riconoscere e affrontare non solo per il trattamento del dolore persistente in sé, ma anche allo scopo di prevenire la cronicizzazione del dolore.

Questo tipo di intervento ha una forte impronta psicosociale e non è semplice da implementare nella pratica clinica.

Con la parte “bio-“  noi fisioterapisti ci troviamo più a nostro agio: c’è la prassi consolidata di ragionare e trattare solo esclusivamente i tessuti periferici.
Tuttavia coi pazienti con dolore persistente si ha la sensazione che la solo parte “bio-“ non sia utile a spiegare in maniera esauriente la situazione: l’intuizione dice che “c’è qualosa sotto, qualcosa sfugge”. Con l’individuazione delle bandiere gialle tale componente sfuggente diventa più palpabile, viene a galla, in quanto abbiamo un quadro generale del paziente molto più ampio, “The Big Picture”.

Anche il management deve essere un “Big Picture Management”, contrariamente alla terapia manuale che si focalizza localmente solo su una struttura: la spalla, il gomito, la lombare o la cervicale.

Il management del paziente con dolore persistente prevede una raccolta anamnestica delle informazioni in maniera mirata all’indentificazione delle bandiere gialle.

Le bandiere gialle vengono classificate secondo lo schema “ABCDEFW”:

  • Attitude e Believes (atteggiamenti e convinzioni)
  • Behaviour(comportamento)
  • Compensation issues (aspetti finanziari)
  • Diagnostic issues (fattori legati alla/alle diagnosi e ai trattamenti)
  • Emotions (fattori emotivi)
  • Family (fattori familiari)
  • Work (fattori lavorativi)

 

Esempi di yellow flags:

  • atteggiamenti e credenze non appropriate sul dolore (per esempio, la convinzione che il mal di schiena sia dannoso o potenzialmente invalidante, oppure un’alta aspettativa sui trattamenti passivi che tende a limitare partecipazione attiva del paziente),
  • comportamenti inappropriati legati alla gestione del dolore (ad esempio, il comportamento di paura-evitamento e la riduzione delle attività),
  • problemi connessi al lavoro o problemi di compensazione (per esempio, problematiche legate al lavoro stesso, praticare un lavoro con scarse soddisfazioni sociali, problemi economici/assicurativi),
  • problemi emotivi (come la depressione, l’ansia, lo stress, la tendenza all’umore basso e il ritiro dall’interazione sociale).

La raccolta anamnestica viene svolta ponendo al paziente delle domande tipo:

  • Non poteva lavorare a causa del dolore? Per quanto tempo?
  • Secondo LEI quale è il motivo del SUO dolore alla schiena?
  • Secondo LEI, che cosa potrebbe aiutarla?
  • Come ha reagito il suo datore di lavoro al suo problema alla schiena? E i suoi colleghi di lavoro?
  • E la Famiglia? E gli Amici?
  • Che cosa fa LEI per sopportare meglio il suo dolore?
  • Che cosa possiamo fare INSIEME per riuscire a migliorare la situazione?

In base a queste nuove informazioni, la pianificazione del trattamento prevede interventi specifici di gestione delle bandiere gialle.

Gli obbiettivi principali del trattamento saranno la desensibilizzazione e, in secondo luogo, il coinvolgimento del paziente in un programma progressivo di riabilitazione.

Primo passo: definire gli obiettivi del paziente. Stipulare un vero e proprio accordo con il paziente riguardante le funzioni o le attività che il paziente sente di aver perso totalmente o parzialmente. In questo accordo, non è previsto il dolore.

E’ una cosa totalmente diversa da quella che di solito facciamo. Se ragioniamo in base ad un modello biopsicosociale e ICF, non ci muoviamo più nell’area delle disfunzioni fisiche o tissutali ma ci occupiamo delle attività e della partecipazione.

Le domande da porre al paziente non saranno più inerenti il suo dolore, ma riguarderanno quello che lui vorrebbe tornare a fare: cosa vorresti fare di nuovo? (che non puoi fare da tempo).

Spesso i pazienti non sanno rispondere nell’immediato a queste domande, avranno bisogno di rifletterci da soli a casa, e ci vorranno due o tre sedute di trattamento prima di definire esattamente il programma. Una volta definiti gli obiettivi e il programma, questo diventa un vero proprio accordo da sottoscrivere insieme al  paziente.

Il paziente deve essere “ingaggiato”, deve vivere il trattamento come un impegno da portare avanti in maniera attiva. Non deve assolutamente pensare: mi sdraio sul lettino, tu fai qualcosa con le tua mani e io sono curato. Questi pazienti hanno bisogno di trattamenti che durano a lungo, mesi e mesi, e spesso con il passare del tempo si può perdere il senso di quello che si sta facendo. Avere “l’accordo firmato” con gli obbiettivi a portata di mano ogni volta, serve a mantenere la rotta e a ridare significato al lavoro svolto fino ad allora e al lavoro che ci aspetta nel futuro.

Una delle possibili barriere che si incontrano in questo intervento sono le resistenze stesse del paziente. I cosiddetti: “Si, si, ma…:”. Durante la negoziazione del programma di trattamento i pazienti spesso possono rispondere con: “si, ho capito, però io non lo posso fare, si, hai ragione, però per me è troppo.”

Alla fine di tutti i “si si, ma…” dobbiamo capire se siamo sulla stessa linea del paziente: se anche il paziente è “a bordo” e viaggiamo insieme nella stessa direzione. Con alcuni pazienti potrebbe essere necessario più tempo per coinvolgerli così attivamente nel processo di riabilitazione.

Prima di iniziare il trattamento è necessario escludere la presenza di bandiere rosse. Bisogna escludere subito eventuali patologie gravi. Non è impossibile che a pazienti con dolori strani e insidiosi venga diagnosticato successivamente una patologia maligna, danni midollari, sclerosi multipla ecc. Bisogna tenere presente tuttavia che spesso la ricerca delle bandiere rosse non è esente da pericoli.

Il rischio è quello di portare il paziente verso la catastrofizzazione. La percentuale di pazienti con mal di schiena causata da una patologia seria è meno del 1%; tutti gli altri hanno cause diverse, in particolare sensibilizzazione centrale. Bisogna mettere sempre sulla bilancia da una parte i rischi di mancare una patologia seria e insidiosa, e dall’altra parte i rischi che comporta la ricerca spasmodica di qualcosa che è poco probabile.

I rischi sono quelli di creare nuovi malati, o nuovi comportamenti da malati. Non tutte le risonanze magnetiche sono utili, anzi in alcuni casi possono essere anche deleterie.

I pazienti sono terrorizzati dalle parole tipo ernia, protrusione ecc, ma che magari non hanno nessuna correlazione con il problema in quel momento. I referti senza una adeguata spiegazione contribuiscono a creare paura, a condizionare i movimenti e la vita stessa dei pazienti. La risonanza magnetica può diventare essa stessa un fattore contribuente alla persistenza del dolore.

La seconda componente è la necessità di fornire spiegazioni: la riconcettualizzazione

E’ la parte più nuova del nostro trattamento: si tratta di accompagnare il paziente a ragionare  in maniera diversa da come ha fatto finora relativamente al suo dolore, fornendo nuove informazioni e spiegazioni sui meccanismi del dolore. Si tratta di integrare le nostre competenze di fisioterapisti con concetti presi in prestito dai trattamenti cognitivo-comportamentali.

Le yellow flags che appartengono alle categorie Attitude, Behaviour e Beliefs, Diagnosis devono essere affrontate durante la fase educativa iniziale (”Explain Pain”). Ad esempio la categoria Famiglia deve essere attentamente presa in considerazione: i familiari molte volte potrebbero essere inclusi nell’Explain Pain, in quanto con le loro convinzioni e consigli (“non fare questo, stai attento a quello”) hanno un’influenza importante sul paziente. E’ fondamentale che anche i familiari comprendano e accettino il razionale dell’approccio terapeutico biopsicosociale.

La fase dell’Explain Pain serve a spiegare  ai pazienti ciò che sta succedendo al loro corpo: a tutti i pazienti interessa sapere di più riguardo le loro problematiche. Spesso le informazioni da loro già possedute riguardano quasi esclusivamente i meccanismi tissutali e periferici: è il disco, il tendine, il muscolo. Normalmente il paziente si presenta con una serie di domande e, se così non fosse, deve essere il terapeuta a stimolargliele:“Qual è il mio problema, cosa può fare lei per me, cosa posso fare io per il mio problema, quanto tempo mi ci vuole per stare meglio”.

Soprattutto l’ultima domanda è molto importante: teniamo presente che è molto frustrante per un paziente  uscire dalla visita di un professionista senza avere la minima idea della prognosi.

I pazienti hanno sempre bisogno di un orizzonte, di capire dove si può arrivare con quella determinata terapia e che cosa si può ottenere da essa.

Un altro aspetto che caratterizza i pazienti con dolore persistente è l’idea di trovarsi in una situazione molto sfortunata, particolare e condivisa da pochissimi individui, verbalizzata con frasi del tipo “Perché è successo solo a me?

Tra tutte le persone che conosco, proprio a me doveva succedere questa cosa?” Per diminuire tali preoccupazioni è fondamentale far capire ai pazienti che non esiste una causa unica del loro dolore, ma piuttosto un insieme di cause, biologiche, socio-culturali e comportamentali, genetiche e ambientali, su molte delle quali è possibile intervenire: bisogna fargli vedere che il loro dolore è qualcosa di complesso e con molte sfaccettature.

E’ utile successivamente rassicurare il paziente sul  fatto che non è solo, che ci sono molte altre persone nelle sue stesse condizioni (in Europa 1 persona su 5 soffre di dolore cronico) e che al giorno d’oggi sono disponibili molte più conoscenze e professionisti che possono aiutarlo in questa “impresa”.

E’ possibile effettuare l’educazione del paziente alla neurofisiologia, sia durante le sedute di fisioterapia, sia in un momento separato, come ad esempio nel contesto di un corso psicoeducativo analogo a quello descritto in un altro articolo della rivista.

L’educazione del paziente passa anche attraverso l’individuazione dei comportamenti e degli schemi motori maladattivi che contribuiscono alla persistenza del dolore.

I pazienti continuano a muoversi e a comportarsi come se fossero ancora in fase di dolore acuto e ciò comporta cambiamenti a livello della rappresentazione corticale di quella parte del corpo. In inglese si dice: “Use it or Lose it”, ovvero “usala (la schiena), o rischi di perderla (la funzionalità)”.

Tali cambiamenti drammatici a livello corticale sono alimentati dalle Bandiere Gialle, e la principale di queste cause rimane sempre la paura! Paura del dolore, paura del movimento, paura anticipatoria di quello che potrebbe succedere. Sono tanti i fattori che posso scatenare il network del dolore, che possono attivare la matrice del dolore, dai pensieri alla paura. Sara compito del fisioterapista individuare tutti questi fattori tramite lo screening delle bandiere gialle e, successivamente, affrontarli nell’ambito del percorso riabilitativo, sia durante l’educazione alla neurofisiologia del dolore, sia durante l’intero percorso.

Lo scopo finale della strategia educativa alla neurofisiologia del dolore deve essere rendere chiaro per il paziente che il dolore che sente è più un problema di maladattamento e non è sempre correlato con un problema o qualche cosa che non va in quella determinata parte del corpo.

Terzo punto del management fisioterapico del paziente con dolore persistente è la riabilitazione vera e propria delle attività e delle funzioni ADL con l’aiuto di strategie di “carico” e “impegno” progressivo.

Il coinvolgimento del paziente in un programma riabilitativo graduale passa attraverso la sua responsabilizzazione attiva.

Il punto d’inizio è la domanda che noi professionisti rivolgiamo al paziente: “Come pensi di diminuire questo dolore? Cosa pensi che potresti fare?” Di solito la risposta dei paziente prevede una risposta passiva: “prendo qualche farmaco”, oppure “smetto quello che sto facendo e mi sdraio”. Il passaggio tra una risposta passiva e attiva è il punto chiave del successo. L’educazione alla neurofisiologia del dolore ha chiarito al paziente i rischi collegati alla risposta passiva, come ad esempio l’abuso di sostanze come oppiacei o alcool, il decondizionamento fisico (da maladattamento e paura del movimento).

Dobbiamo proporre al paziente alternative attive, che distolgano l’attenzione dal dolore e che la focalizzino sulle attività. Il movimento stesso può e deve diventare un inibitore del dolore (tanti studi evidenziano il fatto che l’esercizio fisico induce analgesia).

Dobbiamo esporre il paziente in maniera graduale ad alcune attività, a carico minimo e a piccole dosi, passando sotto il radar del dolore.

Questo deve succedere in maniera esplicita: dobbiamo far capire al paziente che l’obiettivo del fisioterapista è quello di farlo sentire di nuovo a proprio agio con il movimento, e di non farlo vivere come una esperienza di paura.

La fisioterapia, e la terapia manuale in particolare, inibiscono il dolore attraverso l’attivazione dei sistemi discendenti di modulazione del dolore. Con le nostre competenze possiamo ricreare e far provare l’esperienza di un movimento o di una funzione non dolorosa. Bisogna tuttavia tenere presente che le nostre mani possono diventare bandiere gialle, creando una dipendenza nei nostri pazienti: non è affatto raro sentire pazienti che dicono “devo ritornare periodicamente a farmi manipolare la cervicale dal mio fisioterapista.” Come tutte le terapie, l’eccesso diventa fonte di persistenza del dolore.

Il principio fondamentale degli esercizi da svolgere è quello della capacità di carico dei tessuti: “quanto carico ci vuole, quanta forza ci vuole per danneggiare, per lesionare un tessuto? Quanto forza ci vuole per lesionare un tendine o un disco? quando carico sopporta una articolazione prima che si lussi?”

La risposta in tutti i casi è:  tanta, ci vuole tanta forza per creare una lesione. La risposta protettiva dolorosa arriva proprio per impedirci di arrivare al punto in cui si forma una lesione. La risposta dolorosa arriva poco prima della massima caricabilità di un tessuto proprio con l’obbiettivo di proteggere il tessuto dalla probabile lesione.

Nei pazienti con dolore persistente questa differenza minima, tra carico che provoca dolore e carico che provoca lesione si allarga molto: la risposta protettiva contro il dolore arriva con carichi molto più bassi.

Il rischio di questo circolo vizioso è che il paziente con il tempo smette di muoversi perché sente dolore anche con attività che normalmente non lo provocherebbero. La causa di questo aumento della differenza tra carico che provoca dolore e carico che lesiona il tessuto non è da ricercare nei tessuti ma nella neuromatrix del dolore. In alcuni casi, soltanto pensare o immaginare un movimento causa dolore.

Quindi è possibile che durante lo svolgimento degli esercizi, anche quelli con un carico minimo, anche essendo molto lontani dall’intensità di esercizio che può causare una lesione, comunque il paziente percepisca un pò di dolore.

E’ necessario aver chiaro che questo dolore non è correlato con un danno ai tessuti periferici, ma causato dall’attivazione della neuromatrix del dolore.

Per il fisioterapista è fonte di difficoltà far muovere il paziente in una situazione in cui prova dolore, ma in cui comunque i tessuti non sono coinvolti. Il fisioterapista  è stato abituato a lavorare facendosi guidare dal dolore: “Quando ti fa male smetti di fare quell’esercizio”, “se una mobilizzazione passiva aumenta il dolore, allora bisogna diminuire l’intensità” e cosi via.

Ma con il paziente che soffre di dolore persistente è diverso: in questi casi, se ci facciamo guidare dal dolore, si rischia di non arrivare da nessuna parte.

La strategia, in queste circostanze, consiste nel trovare un livello di carico da cui  cominciare a far lavorare il paziente senza che i sintomi divampino di nuovo.

L’obiettivo ultimo di questo percorso riabilitativo non è il rinforzo dei muscoli o l’aumento della capacità di carico, ma la desensibilizzazione delle strutture. 

Per fare ciò, bisogna elevare la soglia oltre la quale si scatena la neuromatrix del dolore, ma senza mai superarla.

Le modalità di questo processo di re-training motorio seguono uno schema graduale.

Si parte con un’attivazione motoria minima e, se questa aumenta il dolore, si ricorre ad esercizi di riallenamento della immagine motoria cerebrale (Graded Motor Imagery).

Si continua con esercizi di riconoscimento della lateralità (destra o sinistra) tramite foto di quelle parte doloranti del corpo.

Si prosegue con movimenti immaginati, per continuare con esercizi che utilizzano gli specchi (Mirror Therapy). Il risultato finale di questo tipo di intervento è una parziale desensibilizzazione dei movimenti dolorosi.

A questo punto si può cominciare con l’attività muscolare vera e propria.

Anche in questo caso il concetto è quello dell’aumento graduale dell’intensità (Graded Activity).

Si può partire con una contrazione muscolare isometrica per passare ad una co-contrazione isometrica di più muscoli.

Sempre seguendo un metodo graduale, si comincia con un movimento singolo con escursione articolare minima e con molte facilitazioni e feedback da parte del fisioterapista, per aumentare lentamente l’intensità aumentando l’escursione o diminuendo le facilitazioni esterne, o tutte e due.

Naturalmente il grado di intensità iniziale degli esercizi va valutato caso per caso.

Non è detto che sia necessario iniziare per forza dall’immagine motoria. Alcuni pazienti possono essere sensibilizzati solo per un movimento specifico, o per un’attività specifica. Per cui anche il loro percorso sarà indirizzato alla desensibilizzazione di quel movimento o di quell’attività. In questi casi la strategia più indicata è una esposizione graduale (Graded Exposure) all’attività. Il concetto di esposizione graduale è preso in prestito dalle terapie cognitive comportamentali, che hanno l’obiettivo di abituare il paziente a situazioni che causano disagio (stress o paura) esponendolo gradualmente a queste situazioni.

Per esempio, se il paziente non si flette perché ha paura di sentire male (e anche perché le persone intorno a lui, compreso il personale sanitario, rinforzano questa paura ripetendogli che se si flette l’ernia uscirà di nuovo), si potrebbe cominciare con piccole flessioni lombari, inizialmente passive (effettuate dal fisioterapista), poi attive con l’assistenza del fisioterapista, e poi attive ma in assenza di gravità (paziente di fianco), per poi passare alla flessione lombare con facilitazioni e piccolo “range of motion”, per passare a quelle con meno facilitazione aumentando il range. Il risultato finale sarà che quell’attività risulterà meno minacciosa e il paziente riprenderà a svolgerla senza avvertire un aumento del dolore.

L’aumento graduale delle attività può essere misurato con il numero crescente di ripetizioni (da 20, a 25, a 30 ripetizioni, ecc), oppure con un aumento del tempo durante il quale vengono svolte.

Oppure possono essere anche di tipo decrescente: ad esempio, il numero di ore che il paziente porta il busto in una giornata da diminuire nel tempo, oppure la diminuzione dell’utilizzo di altri ausili (stampelle, deambulatori ecc).

L’orizzonte, la meta finale di questi esercizi e di questo processo di re-training, sono quelle attività scelte nelle prime sedute.

Come dicevamo prima, è utile avere sempre a portata di mano gli obiettivi concordati nelle prime sedute, poiché si possono affrontare con essi anche i momenti di panico in cui il dolore divampa.

Con quegli obiettivi si riporta l’attenzione del paziente sul percorso svolto e sui progressi fatti. Se il paziente si lamenta di un dolore che dopo 30 minuti di passeggiata diventa insopportabile, dobbiamo fargli notare che il mese prima si lamentava del fatto che il dolore, dopo 10 minuti, diventava talmente forte che doveva smettere di passeggiare, e che il suo obiettivo è quello di poter fare almeno un’ora di cammino. Dobbiamo rinforzare sempre la visione positiva: “siamo partiti da questo, siamo arrivati a questo, dobbiamo arrivare a questo, ci rimane ancora questo pezzo di strada”.

Il percorso del paziente con dolore persistente verso il riappropriarsi di una vita libera dal dolore è simile alla fatica che si prova durante un’escursione impegnativa verso una vetta in montagna. Se non si conosce il percorso, se non si hanno guide, se si è da soli, ignari di quando la salita finirà, senza possibilità di conoscere né vedere la vetta da raggiungere, il percorso può diventare un inferno, la fatica insopportabile e il desiderio di mollare prendere il sopravvento.

Al contrario, sapere e conoscere il percorso che si va ad affrontare, sapere quando finirà la salita impegnativa, sapere esattamente quanto è distante la vetta e che qualsiasi cosa succeda ci sono delle guide o dei compagni di cordata che sostengono e aiutano, permette di affrontare il percorso con più coraggio, sentendo meno la fatica e magari anche apprezzando il panorama.